Yobi-tsugi, kintsugi e arte

Andando a spasso su Internet e cercando in giro per il web che significato avesse lo yobi-tsugi, sono capitato a caso su un’immagine che mi dava così tanto a livello di sensazioni! Non so nemmeno spiegarlo, o meglio non riesco in questo momento a trovare le parole, anche se in vero so benissimo che sarei in grado di spiegarlo se solo mi mettessi un attimo a riflettere su quali parole usare e sulla giusta terminologia. A questo forse dedicherò tempo più avanti, in un altro tipo di scritto, ma adesso sono qui per scrivere di ciò che ho trovato nell’aprire l’articolo allegato all’immagine della tazza che tanto stupore ha recato alla mia anima.

Ebbene, l’articolo – che per altro era scritto in lingua francese – parlava di renaissance d’une tasse, ovvero rinascita di una tazza. E fino a qui nulla di nuovo, dal momento che sapevo benissimo che in ogni caso, cercando cose come yobi-tsugi, sarei sicuramente incappato in argomenti simili. Ma il punto di svolta sta proprio nella traduzione, ovvero nella traduzione dal francese all’italiano del termine renaissance, che significa Rinascimento. E allora mi interrogo su chi abbia avuto l’idea sublime e perfetta di parlare di Rinascimento di una tazza, e di parlare della stessa tazza come se questa fosse cosa umana e sensibile. Più che altro sensibile.

Quanto sono sensibili gli oggetti che ci circondano? E quando soffrono quando li “maltrattiamo”? Forse non dovrei nemmeno mettere le virgolette intorno alla parola maltrattare, proprio perché è un termine giusto nella misura in cui decidiamo di accettare che l’oggetto abbia in sé una sensibilità innata e del tutto coerente – anche se alla prima potrebbe non sembrare – col suo essere statico ed apparentemente inanimato. Solo apparentemente inanimato.
Mi vengono in mente i flussi di energia che ci circondano, e le fasi lunari. E quanto un certo tipo di ambiente sia in grado di influire sull’umore delle persone (e a questo punto mi chiedo se anche sugli oggetti). Mi si apre un mondo scritto nero su bianco su cui indagare, mentre prima mi limitavo solo a parlare con gli oggetti, a carezzarli piano per non farli soffrire, a poggiarli con delicatezza in posizioni comode per loro, per la loro conformazione e la loro fattezza.

Sarebbe bello quindi non solo adottare questo comportamento, ma studiare anche come e quanto gli oggetti siano influenzati dal nostro comportamento; e, mi sento di dire, anche quanto noi lo siamo dal loro.
Lo yobi-tsugi (così come il kintsugi) nasce come metodo di ricostruzione di un oggetto rotto o anche solo danneggiato donandogli una bellezza più intensa di prima, e di conseguenza la tecnica viene resa metaforica anche per curare le ferite emotive che vanno a crearsi interiormente all’animo umano. Ma cosa succederebbe se invece la cosa venisse invertita, e cioè cosa accadrebbe se pensassimo all’inverso e se incanalassimo le nostre energie per cercare di curare un oggetto partendo da modalità sin ad ora rivolte solo all’etereo universo emotivo umano?

La mia riflessione volge adesso al ricordo di un volume studiato all’università per un esame di Storia dell’Arte, e cioè Immagini che ci guardano – Teoria dell’atto iconico di Horst Bredekamp, storico di arte tedesco, che nel suo saggio porta avanti la sua teoria artistica secondo cui l’icona, l’immagine, il quadro che dir si voglia sia un’opera attiva la cui essenza intrinseca le permette non solo di essere da noi osservata, bensì anche – e direi soprattutto – di osservarci. Di guardarci dentro. L’opera ci guarda, ci scruta, e al contempo provoca dentro di noi la creazione di nuove immagini all’interno del nostro inconscio e della nostra psiche, favellandoci ciò che di più spaventoso l’uomo possa temere: la vitalità dell’opera stessa, che prende appunto vita dalle mani umane del pittore, e che da quelle mani si erge a chimera estetica e portatrice di una propria esistenza. Nel volume di Bredekamp, vengono analizzate le più disparate opere di pittura, dai tempi dell’arte primitiva sino ai giorni nostri.

Si tocca qui il ruolo contemporaneo dell’estetica – intesa certamente in modo del tutto differente da ciò che si ritrova nelle teorie kantiane –, che inaugura una nuova scienza dell’immagine, volta proprio a vedere l’opera come la musa principe di questo atto iconico che altro non è che l’attività dell’immagine stessa di svelarsi ai nostri occhi e di spogliarci di noi stessi con la sua potenza espressiva.
Da qui, prese da Horst stesso come punto di partenza per le proprie riflessioni, le parole di Leonardo da Vinci:

Non iscoprire se libertà t’è cara che’l volto mio è charciere d’amore

Si tratta qui di un’annotazione di Leonardo riguardante una statua parlante. L’annotazione allude all’usanza in voga all’epoca di coprire le statue per poi mostrarle in occasioni ed eventi. Primo fra tutti, quindi, Bredekamp ci porta a scoprire una nuova modalità di percepire l’immagine, una nuova tematica – quella delle “immagini che ci guardano” – che indaga non su quanto noi riponiamo di nostro in un’immagine/un quadro che osserviamo, bensì quanto la stessa immagine o lo stesso quadro vadano ad influire non solo sul nostro umore ma anche – e forse soprattutto – sulla nostra psiche e sul nostro inconscio.
Al giorno d’oggi si tratta di una vera e propria scuola di pensiero e viene allora naturale il paragone con la metafora rovesciata del kintsugi. E cioè: quanto davvero il fulcro ed il cuore dell’oggetto vengono riparati con questa tecnica? È utile agli oggetti, così quanto lo è agli umani? Ed anche, può un oggetto ridefinire se stesso e diventare – nella sua strada in divenire – una massa resiliente in grado di fare della propria vita un’opera d’arte a partire dalle proprie ferite? Quando la vita di un oggetto può definirsi terminata? E infine, quando davvero inizia la vita di un oggetto?

Alexei Matta Sergiampietri

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