Ugo Chiti e il teatro di provincia

Chiedersi quanto conta il luogo in una storia non è certo prerogativa del teatro, tuttavia in teatro anche il racconto di un luogo è uno spettacolo a sé proprio perché, al contrario del cinema, il luogo fisico in cui la storia viene raccontata rimane sempre lo stesso (certo la scenografia può aiutare), ma
è compito degli attori, dei registi e dei drammaturghi portare lo spettatore da uno scenario all’altro.

Uno degli esempi forse più noti e conosciuti della forza del luogo per una storia è, probabilmente, la Sicilia di Camilleri nei romanzi di Montalbano. Ebbene, la stessa verità e asprezza che trasuda dalle pagine di quei romanzi la troviamo nel teatro di Ugo Chiti.

Il primo segno distintivo è la lingua: il dialetto toscano con cui Chiti racconta le pieghe che assume l’anima umana nelle sperdute province toscane, dove la crudeltà della vita dei paesini di campagna condiziona l’esistenza dei personaggi che ci vivono.

Alcune drammaturgie dell’autore e drammaturgo sono ambientate negli anni della guerra e del fascismo, ricreando nello spettatore, soprattutto in quello toscano, l’immagine di un passato che in qualche modo ci è stata geneticamente trasmessa. Quando non è la storia che ci ricorda quanto l’ambiente si imponga con un determinismo prepotente sulla vita delle persone, lo fanno gli stessi personaggi.

Infatti, così come chiaramente ci spiega Sestilio in Allegretto… perbene, ma non troppo:

 «gl’è a questo modo che si nasce ne paesi. Si nasce sempre du vorte. La prima si nasce come tutti, come vengano a i mondo tutti e la seconda volta si nasce a due a dieci o a vent’anni.. si nasce a caso e allora si nasce grulli, o troie o finocchi o ladri o sudici…».

Se lo scenario cui rimandano le parole di Sestilio rischia forse di non metterci in allarme perché in qualche modo legato ad un periodo storico ormai lontano, altrettanto non può dirsi di “bottegai” un’opera costituita da tre monologhi apparentemente non legati tra loro, ambientati nel Fiorentino in periodi storici diversi: Rutilio Canova (un delirio), Silvana (una riflessione) la Porcilaia (una confessione). Queste tre storie vedono un trait d’union nella vita di bottega, intesa come periferia della società. Ed è proprio la bottega il luogo da cui questi personaggi desiderano ardentemente di fuggire: nel sogno infranto e delirante di un futuro sperato che non si  potrà realizzare, nel dolore della confessione di una vita intrisa di rimorsi e di rimpianti e, infine, nell’ascesa al conformismo che si sostanzia negli sforzi necessari per scrollarsi di dosso le proprie origini.

Il lettore e lo spettatore vivono in questi monologhi l’angoscia della provincia – sia questa fisica o sociale – dove la disperazione sta con la felicità nello stesso rapporto in cui sono città e periferia: stare da dove si vede il centro, ma arrendersi all’idea di non poterlo raggiungere.

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