“The Shape of Water”: la favola di Del Toro conquista Venezia

VENEZIA – Una favola, un thriller, un fantasy, ma soprattutto una grande storia d’amore. The shape of water – l’ultimo film del regista messicano Guillermo Del Toro – sconfina dai generi, conquistandosi pubblico e critica, e portandosi a casa il Leone d’oro della 74esima Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Noi l’abbiamo visto e ve lo raccontiamo, ancor prima della sua uscita in Italia, prevista per febbraio 2018 (intanto per il trailer clicca qui).

«Se vi dovessi parlare di lei, la principessa muta, che potrei dirvi? Vi dovrei parlare del quando? È successo tanto tempo fa durante gli ultimi giorni di regno di una principessa delle fate. O vi dovrei parlare del posto? Una piccola città vicino alla cosa, ma lontano da qualsiasi altra cosa. O forse dovrei mettervi in guardia sulla veridicità di questi fatti e sulla favola dell’amore e della perdita e del mostro che ha tentato di distruggere tutto». 
Così, la voce fuori campo del vicino di casa di Elisa – interpretata dalla splendida Sally Hawkins – una ragazza affetta da mutismo che nell’America del 1962 lavora come donna delle pulizie in un laboratorio governativo dove è tenuta prigioniera una creatura anfibia che ha bisogno di acqua per sopravvivere. Nel clima della guerra fredda gli americani la studiano, i russi la vorrebbero. Ma sarà proprio la dolcezza di Elisa a far sciogliere il mostro, avviando un meraviglioso viaggio all’insegna della comunicazione e dei sentimenti.

The shape of water è una danza magnifica sulla connessione fra esseri umani, una ballata sublime sulla diversità e una favola sul potere e sulla purezza dei sentimenti. L’abilità di Del Toro nel dar vita a creature e inserirle nell’ordinario è mescolata alla grazia della fotografia e i suoi colori così tenui e delicati, che accompagnano gli occhi e il cuore nella visione del lungometraggio. Un inedito miscuglio fra Il favoloso mondo di Amelie (2001) e Arrival (2016) che sfugge a una classificazione, essendo semplicemente un unicum, un capolavoro raro e solitario. Una ricetta fantastica – in entrambe le accezioni dell’aggettivo – di recitazione, scenografia e montaggio che è costata al regista ben sei anni di lavoro, con una produzione che sfiora 19 milioni di dollari.

«Se non facciamo niente, non siamo niente» dirà con il linguaggio dei segni Elisa, nella sua lotta disperata al salvataggio del mostro. Perché quando si trova la giusta alchimia, non importa chi ci sia dall’altra parte, ma si combatte senza sosta per raggiungere la felicità. Una determinazione e una ricerca spasmodica di benessere, che i due protagonisti troveranno nell’acqua, la cui forma è appunto sfuggevole, imperfetta, inafferrabile, ma la cui libertà è potente, incontenibile, spasmodica. La realtà incontra il fantastico in maniera semplice e non artefatta, creando un connubio naturale in cui l’amore non è stereotipo, ma quotidianità, non è idealizzato, ma vissuto. Il tutto sulle magnifiche note di Alexandre Desplat.

Dopo Il labirinto del Fauno (vincitore di 3 premi Oscar), la trilogia di Lo Hobbit e Crimson Peak, Del Toro continua la caccia ai mostri, svelandoci un nuovo esemplare. «Il modo migliore per raccontare le cose anche quelle serie è la favola. Verso la favola gli adulti non hanno difese, appena gli dici “c’era una volta” si lasciano andare», così il regista messicano spiega il suo film in conferenza stampa. Perché, intendiamoci, dalla politica alla comunicazione, di cose serie nel film ce ne sono. Ma è anche un film che sa parlare a tutti senza retorica, un film per il grande pubblico e non elitario che per una volta – e finalmente – la giuria di Venezia ha scelto di premiare.

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