“The Circle”. I social come dèi del conformismo

A causa dell’uso che ne abbiamo fatto da qualche anno a questa parte, i social sono diventati dei compagni ossessivi e onnipresenti nelle nostre vite. Con l’avvento del web, hanno subito iniziato a spopolare, irrompendo nelle nostre abitudini fino a diventare elemento indispensabile per la nostra quotidianità. Essi nascono come mezzi di comunicazione in tempo reale, a qualsiasi distanza e con qualunque parte del mondo si abbia voglia di parlare. Attraverso questi network le informazioni possono essere scambiate istantaneamente così da poter essere aggiornati in qualsiasi momento su fatti di cronaca, divergenze culturali o semplicemente su cosa stia accadendo al nostro parente che vive in un’altra città. Negli anni sono diventati dei veri e propri aggregatori di persone che cercano e mantengono contatti tra vecchi e nuovi amici, condividendo foto, video e contenuti della propria vita.

 

Facebook, Twitter, Instagram… Più di un miliardo di persone nel mondo ha un proprio profilo social e, quasi la metà di questi, lo aggiorna in continuazione, primi fra tutti i giovani, che passano dalle due alle tre ore a “surfare” da un network all’altro per tenersi sempre aggiornati su gusti e tendenze che spopolano tra i propri coetanei. Questo negli ultimi tempi è diventato un vero e proprio problema. Sono sempre di più i ragazzi che cedono alla dipendenza dai social, bambini facilmente influenzabili, insicuri e dalla personalità ancora troppo debole per non uscire schiacciata da quel gigantesco mondo che ogni secondo si apre sotto i loro occhi. Questa malattia (perché di ciò si sta parlando) porta allo sfinimento, allo stress, all’ansia e alla depressione e infine a cercare rifugio proprio in ciò che li sta uccidendo. Questi ragazzi sentono il bisogno incessante di aggiornare i propri profili rinunciando quasi completamente alla propria privacy, poiché questi siti permettono loro di condividere ogni dettaglio della propria vita, da semplici foto ricordo a pensieri profondi, intimi e privati, letti da chiunque abbia la possibilità di accedere al loro contatto.

Ma il rischio più grande a cui questi giovani vanno incontro è certamente la perdita della propria identità. Si tratta di una forma di annullamento di sé che permette alle opinioni degli altri di apparire davanti ai nostri occhi più importanti del nostro giudizio personale. Ciò è motivato da un bisogno insaziabile di piacere e di essere apprezzati per ciò che si è e per ciò che si fa. Con i social è ancora più facile diventare schiavi e dipendenti dalle opinioni altrui perché, dal momento in cui abbiamo la possibilità di postare tutto ciò che indossiamo o che facciamo su un portale, ci mettiamo nella condizione di essere visti e giudicati dagli altri. E se le risposte fossero severe rischieremmo di rimanerne traumatizzati. Per questo motivo tendiamo ad assomigliare agli altri, a imitare i loro gusti e a conformarci ad una massa che sembra per lo più, come direbbe Pirandello, «una grande pupazzata».

Siamo stati tutti travolti da una forza che non riusciamo a gestire e facciamo di tutto per sopravvivere in questa comunità fredda e meschina che ci inculca nel cervello l’importanza del conformismo e rafforza il culto dell’“amore”. Il piacere agli altri viene visto come l’unica soluzione a tutti i problemi e come il solo mezzo per essere accettati.

Ogni anno centinaia di ragazzi e ragazze si tolgono la vita perché presi di mira sui social per la loro diversità, per il loro essere unici e speciali. È questo ciò che fanno i social: creano mostri e vittime, mietitori e oppressi. Cosa non si farebbe al giorno d’oggi per un centinaio di “like” su una propria foto o per qualche commento sul nostro ultimo video? Ci convinciamo che l’unico modo che abbiamo per piacere agli altri sia essere tali e quali a loro: frequentare gli stessi posti, postare video o foto di ogni istante della nostra vita, indossare abiti alla moda e avere sempre qualcosa di interessante da condividere sulle storie di Instagram.

Ognuno di noi è dipendente in qualche misura dagli altri perché tutti abbiamo bisogno di approvazione, empatia, di conferme e accettazione, per sostenerci e per regolare la nostra autostima. Viviamo in una condizione razionale negativa caratterizzata dalla necessità di ricevere amore che, se non arrivasse, ci porterebbe alla distruzione.

Emma Watson in una scena del film

 

Tutti questi temi vengono brillantemente affrontati nella pellicola di The Circle, un lungometraggio presente nelle sale fino al mese scorso che vede il regista James Ponsoldt alla guida di Emma Watson e Tom Hanks. Il film descrive al meglio uno scenario degno di George Orwell, un 1984 ambientato ai giorni d’oggi e all’era in cui la tecnologia ha ormai preso il sopravvento sulle nostre vite.

La protagonista, Mae Holland (Emma Watson) assillata dalla paura di vivere con un potenziale inespresso, proviene da una famiglia di condizioni modeste col padre affetto da sclerosi multipla che non può permettersi le cure costose che gli sarebbero necessarie. All’inizio del film la vediamo lavorare presso un call center, rassegnata a un’odissea di precarietà e invisibilità. La sua vita cambia drasticamente quando Annie, sua cara amica, riesce ad assicurarle un colloquio con l’azienda The Circle. Si apre così di fronte a lei un universo parallelo che supera ogni immaginazione: un campus popolato da giovani che lavorano insieme tra l’alta tecnologia e i social media.

Lo scopo dell’azienda è quello di intervenire su ogni aspetto della propria quotidianità attraverso nuove tecnologie e privando tutti della propria privacy, considerandola superflua e pari alla menzogna. The Circle illustra cosa vuol dire essere costantemente alla mercé del giudizio altrui e mostra come le persone cambino se costrette a vivere con l’occhio giudice dei coetanei incessantemente puntato sul volto. La protagonista stessa è spinta a modificare le proprie abitudini sapendo di dover postare ogni sua azione sui social.

Il film ci spinge a riflettere e a capire fine a che punto possiamo permettere agli altri di cambiarci e di entrare nelle nostre vite perché nessuno ha il diritto di trasformarci in ciò che noi non siamo. L’era digitale ci sta sfuggendo di mano ma dobbiamo cercare di riprendere il controllo su questo enorme potere che abbiamo acquisito nei secoli, altrimenti, tra qualche anno o poco più, non saremo altro che maschere o fantocci privi di anima e personalità.

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