Sfide cult: Duel di Steven Spielberg

Per mezz’ora nella vita perdi il contatto col mondo civile e ti senti come fossi ancora un selvaggio nella giungla

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Intraprendere una carriera cinematografica è un’espressione diffusa che non necessariamente è sinonimo di fare cinema. Fare cinema è un qualcosa di magico, vuol dire tanto e poco. Vuol dire raccontare favole, realtà e realtà per mezzo di favole. Raccontare e contemporaneamente ricercare e cogliere la bellezza in un’immagine o in un rumore. Iniziare a fare cinema è anche una sfida. E se il soggetto in questione è Steven Spielberg l’esito è garantito. Così, nel 1971, quattro anni prima de Lo squalo, l’allora venticinquenne Spielberg esordiva col lungometraggio Duel, una produzione destinata alla televisione che successivamente è stata distribuita nei circuiti cinematografici fino a diventare un cult-movie.

La chiave gira, il motore si avvia, si parte. David Mann, impiegato, persona qualunque, è in auto e sta tornando a casa dalla famiglia: comune momento di rientro dal lavoro in un’atmosfera rassicurante. Alla radio lo speaker trasmette notizie sul traffico e sulle trasformazioni della società americana, tutto sotto controllo. Poi David imbocca un’autostrada senza pedaggio e qui incontra il diavolo. In un paesaggio semi-desertico il diavolo appare sotto forma di guidatore di autocisterna contenente materiale infiammabile. Il misterioso figuro alla guida del mezzo ingaggia inizialmente una sfida di velocità col protagonista per poi cercare di ucciderlo. Mano a mano che da parte di David matura la consapevolezza delle intenzioni del rivale, egli farà i conti con l’emozione che forse teme più di ogni altra: il terrore. La risoluzione coincide con l’accettazione del duello a bordo della propria auto. Solo in questo modo, con un abile trucco, David riuscirà a liberarsi del rivale.

Come ogni esordio di un grande del cinema, Duel, negli anni, è stato sviscerato sotto ogni inquadratura. Imbattendosi nelle analisi e nelle schede critiche è interessante la mole di significati metaforici che gli vengono attribuiti: riflessioni sull’aggressività umana, aspetti inquietanti del rapporto uomo-macchina, tutti argomenti circostanziati sulla base di numerose opere successive, tra le quali come non citare Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) piuttosto che E.T. L’extraterrestre (1982) o Jurassic Park (1993), La guerra dei mondi (2005) e altri film arcinoti. Incredibile se si pensa che è un film che è stato realizzato in circa due settimane da un esordiente.

Il soggetto di Duel è tratto dall’omonimo racconto dello scrittore statunitense Richard Matheson, che ne realizzò anche la sceneggiatura. Trovandosi a lavorare col materiale di un professionista il giovane Spielberg è riuscito a tradurlo in immagini con un ritmo e una suspense notevoli. Duel è una sorta di prologo, di cosmogonia dell’universo immaginifico spielbergiano, nel quale si possono riconoscere delle figure ricorrenti nel suo cinema.

Un autista aggressivo, uno squalo mangiatore di uomini, l’indomabile Tyrannosaurus rex figlio di una sfida dell’uomo alle leggi della natura. Il tema della sfida è centrale, un uomo qualunque a bordo della propria automobile si imbatte in un mostro rugginoso e fumante condotto da una persona che non si vede mai in figura intera, quasi un’entità demoniaca. Tra magnifici scorci di paesaggio desertico la suspense e l’inquietudine raggiungono picchi nella rivelazione dell’attesa del mostro dietro a una curva, al di là di un dosso o all’imbocco di una galleria, con i fanali come piccoli occhi indemoniati che ci fissano dal buio. L’ambiente chiave del film è l’automobile, dove il mostrare si appoggia a un largo utilizzo di soggettive, tra cui quella celebre dallo specchietto retrovisore dal quale David controlla la sagoma minacciosa dell’autocisterna. In una trama scarna di dialoghi il regista si avvale spesso della voce fuori campo per far parlare il pensiero del protagonista, conferendo alla narrazione uno stile letterario.

et-spielbergSforzarsi nella ricerca di un’espressione che descriva il cinema di un regista che con le sue favole ha accompagnato e fatto sognare generazioni di spettatori è forse riduttivo. Se un bambino una sera, in televisione, vedesse Hook – Capitan Uncino e durante la pausa pubblicitaria da film in prima serata vi chiedesse: chi lo ha fatto, chi è Spielberg? Ammettendo l’esistenza di questo bambino cinefilo, che forse è in tutti noi, in quelle immagini anni novanta lontane e vicine al tempo stesso che tradiscono pure l’età di Peter Pan, cosa dire? Spielberg è genialità spontanea sotto forma di immagine. Una risposta data forse per noi stessi, che il bambino cinefilo nemmeno ascolterebbe. Ma le risposte per il bambino sono sullo schermo, inossidabili al tempo.

Leo D’Arrigo

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