Rossini e L’Italiana in Algeri, analisi di un successo

Nel 1813, al compimento del ventunesimo compleanno, Gioacchino Rossini era già sulla breccia: il suo catalogo comprendeva ben undici titoli, tutti composti e rappresentati tra il 1810 e il 1813 (ad eccezione di Demetrio e Polibio, scritto tra il 1806 e il 1808 e rappresentato nel 1812), molte delle rappresentazioni erano state coronate da successo. Tuttavia solo in quell’anno si realizza il suo primo capolavoro e il suo primo autentico trionfo, che corrispondono a L’Italiana in Algeri.

La genesi di questo lavoro è davvero singolare, perché l’Italiana nasce come «opera di ripiego», espressione dell’epoca che significa esattamente quello che pensate: in cartellone era previsto un titolo (nella fattispecie una nuova opera di Carlo Coccia) che, per circostanze contingenti, dovette essere scartato. A questo punto, per “tappare il buco” il Teatro San Benedetto di Venezia si rivolse a Rossini, commissionandogli l’opera a fine aprile da doversi rappresentare il 22 maggio. Se è vero che oggi l’idea di scrivere, imparare e allestire un’opera nuova praticamente da zero in circa un mese ci sembra autentica follia, è altrettanto vero che che per l’epoca era normale consuetudine (non è un mistero il perché il repertorio operistico ottocentesco oscilli tra l’eccelso capolavoro e la porcheria, ossia perché spesso i compositori avevano letteralmente i giorni contati per comporre un titolo ex novo); anzi, probabilmente il teatro si rivolse a Rossini proprio perché fin da inizio carriera ebbe la fama di compositore non solo valido ma anche molto rapido nei tempi di elaborazione.

A confermare questa sua natura di “rimpiazzo” va anche il fatto che il libretto di Angelo Anelli non era nuovo ma era già stato musicato – seppur con mediocre successo – nel 1808 da Luigi Mosca e che i recitativi secchi non sono stati scritti di pugno da Rossini ma da un collaboratore, così come l’«aria di sorbetto» Le femmine d’Italia (un procedimento anch’esso ben più che consolidato nella tradizione del melodramma italiano, praticato fin dal secolo precedente).

Ebbene, come già accennato l’Italiana fu un successo travolgente, come testimonia eccezionalmente Stendhal nella sua Vita di Rossini: «Il risultato del carattere dei veneziani è che essi vogliono, anzitutto, nella musica, arie piacevoli; più leggere che appassionate. Furono serviti a dovere nell’Italiana; mai popolo godette uno spettacolo più rispondente al proprio carattere e, fra tutte le opere, non è mai esistita una che dovesse piacere di più ai veneziani».

Può sembrare quasi miracoloso che un’opera scritta in fretta e furia e con “elementi di recupero” sia stata coronata da tale successo. Eppure è piuttosto chiaro che si tratta sostanzialmente di un successo pianificato a tavolino. Innanzitutto bisogna ricordarsi di chi è l’autore, vale a dire il più grande operista italiano pre-verdiano (a eccezione di Mozart, naturalmente, che però resta al di sopra di qualsiasi possibile comparazione). Gioacchino Rossini era parimenti uno straordinario compositore e uno straordinario uomo di teatro, nel senso che sapeva sempre ed esattamente cosa dare allo spettatore per poter muovere le sue emozioni come un burattinaio i fili dei suoi fantocci. Dei suoi primi undici titoli, sette furono rappresentati in prima assoluta a Venezia; va da sé che il pesarese conosceva alla perfezione il gusto dei suoi spettatori ed era perfettamente consapevole di cosa lo aggradasse e cosa no. La scelta di un soggetto in cui prevalessero situazioni brillanti, equivoche (anche in senso sottile e per nulla comico, come nel quartetto Per lui che adoro, in cui si insinua molto sottilmente il dubbio perché non è chiaro a chi si rivolga la livornese Isabella), è direttamente modellata sull’ideale operistico veneziano, dove si puntava massimamente sulla raffinatezza, sul non detto, sull’appena celato e questo in ogni aspetto dell’opera, scrittura musicale, citazioni e prestiti da altri autori, espedienti del libretto e così via. Oltretutto Rossini cavalca la moda delle “turcherie”, iniziata negli anni ’80 del Settecento e destinata a perdurare fino agli anni ’20 dell’Ottocento, moda che in questo caso si concretizza nell’uso delle cosiddette percussioni turche (catuba e banda turca).

In sostanza, per adottare un linguaggio odierno, si trattava di “musica commerciale”: il pubblico chiede e il compositore offre. Ma in questo caso Rossini non si limita a seguire passivamente una moda, lui prende gli elementi salienti e li combina con stupefacente equilibrio, disegnando dei personaggi da una parte fin troppo stereotipati (come nel caso di Mustafà) dall’altra innovativi e anticonformisti: Isabella è la prima vera “eroina” rossiniana, punto focale dell’intero melodramma e personaggio estremamente autoritario, tanto che trasforma Mustafà di leone in asino. In sostanza Rossini rimescola le carte e, pur non allontanandosi dalla tradizione teatrale, aggiunge qualche spezia alla sua ricetta, qualche elemento di novità che però non turba l’equilibrio generale. Anzi, lo consolida. Si aggiunga a questo la sua strepitosa invenzione melodica ed eccovi servita la ricetta per un capolavoro… da leccarsi i baffi!

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