Parliamo con Paolo Cioni

Intervista a Paolo Cioni

Insieme all’interessante anteprima parigina e pisana di Fino a qui tutto bene, questo mese TuttoMondo vi offre anche un’intervista ad uno dei protagonisti del nuovo film di Roan Johnson, ovvero Paolo Cioni, poliedrico attore pisano che si muove tra teatro, cinema e televisione. Ci racconterà del suo passato, presente e futuro. Buona lettura.

PaoloBuongiorno Paolo. Partendo dall’esperienza che hai avuto all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, e quindi da una tua porzione di vita vissuta fuori sede, come hai tradotto questo tuo spaccato di esistenza nel personaggio (chiamato anch’esso Cioni) che interpreti in Fino a qui tutto bene?

Quando uno lavora su un personaggio – soprattutto nel cinema, perché in teatro è diverso, in teatro ti stacchi maggiormente dal tuo modo di essere – si attinge sempre da noi stessi e dalla nostra esperienza, perché per creare quella realtà credibile nel cinema bisogna partire dal proprio vissuto, dal nostro modo di essere e dal nostro modo di rapportarci con le cose che la vita ci propone. Per rendere credibili i miei personaggi cinematografici e/o televisivi io prendo un pezzo del mio modo di vivere e lo porto all’esasperazione. Se il mio personaggio è introspettivo, serio o triste, io prendo quella parte di me più vicina a quello stato d’animo e la incanalo maggiormente verso una migliore resa cinematografica. Tornando alla domanda. È ovvio che quando io ho vissuto da solo a Roma, con altri studenti, ero diverso da come oggi appaio – studente – nel film. Di solito sono uno che scherza e gioca e pure nel film ho queste caratteristiche pur avendo quella specie di burberità da “lupo di mare pisano” che in realtà ho solo in pochi momenti e inoltre nel film il mio personaggio ha un attaccamento ai soldi che è più lucchese che pisano. L’attore ha solo il compito di sapere incanalare in maniera credibile una caratteristica del suo carattere ed esporla nel modo migliore.

Nel film queste caratteristiche del personaggio sono state delineate da te, da Roan Johnson o da una stretta collaborazione tra voi?

Roan ha scritto una base per tutti i personaggi. Quando ha cominciato a scrivere il testo aveva dubbi di assegnazione su 4 dei 5 personaggi, mentre quello che sarà il personaggio del Cioni era già stato definito ed assegnato a me. Roan dà degli input e noi si lavora provando con lui: unendo gli input che dà lui e quelli che si danno noi attori arriviamo ad un testo che non si differenzia molto dall’originale perché la struttura della storia, essendo Roan anche uno sceneggiatore, è molto solida e contiene già gran parte delle cose che verranno girate.

Infatti il film è stato girato in poco tempo, circa 4 settimane...

Avere questo tipo di sceneggiatura ci ha facilitato e anche il fatto di provare in modo molto assiduo, nella casa dove stavamo a Pisa, ci ha permesso di avere un film che funziona anche grazie al solido rapporto che si è creato tra i vari partecipanti, tra di noi amici prima e amici durante. Roan, inoltre, ha una specie di potere magico di riunire sullo stesso set persone che inizialmente sembrerebbero non aver nulla in comune ma che alla fine riescono ad arricchire il gruppo. Come ad esempio il caso di Claudio Santamaria per il film I primi della lista, dove lui poteva essere considerato il “famoso”, il “vip”. Partendo dal presupposto che Claudio è una bravissima persona a livello umano in partenza, Roan è riuscito già da quel film a mettere tutti sullo stesso piano e quindi ti senti al sicuro con lui.

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I primi della lista era il tuo primo film ad uscire per il grande schermo. Cos’è cambiato sul set e in te in questi anni che dividono i due film, sia a livello personale che professionale?

gisIn realtà è cambiato molto poco perché Roan ha sempre trovato gente con grande voglia di lavorare. In entrambi i film c’erano attori e professionisti con una marcia in più visto che credevano fino in fondo a questi progetti. A livello di trama e di storia io ero più intrigato da I primi della lista, perché era un progetto che si staccava più da me. Fino a qui a tutto bene, parlando di studenti e di cose attuali, mi risulta invece più vicino, facilitandomi nell’immedesimazione con quei personaggi che hanno avuto il mio stesso vissuto. Per entrare nei personaggi de I primi della lista bisognava invece pensare in un’altra maniera, con la testa indirizzata verso quell’epoca specifica. Addirittura qualche bigotto che aveva vissuto male il periodo dei primi anni ’70 si è azzardato a dire che non era il caso di ironizzare su queste cose; però in realtà quello che abbiamo cercato di fare nei due film è una sana ironia su delle cose che ci stanno a cuore come l’attivismo politico di quegli anni ed il fermento vivo degli studenti. Se io ho fatto questo film è anche grazie a loro.

Volevo tirare in ballo un film che ho trovato sulla tua filmografia ma di cui ci sono poche informazioni a riguardo. Il film è I calcianti. Ci puoi raccontare le vicissitudini che hanno portato ad uno slittamento di uscita di questo progetto?

Ho girato questo film dopo la prima stagione de I delitti del BarLume e dopo I primi della lista. Non so quando uscirà e se uscirà, so solo che ci sono stati dei problemi di produzione perché il film è una co-produzione italo-russa, c’erano attori russi ed un ricco cast italiano: Francesco Scianna, Francesca Inaudi, Guido Caprino, Vauro (che interpretava mio padre), Paolo Hendel. È un film corale, costruito su quattro storie basate sulle quattro squadre del calcio fiorentino. Io interpretavo il fratello secco e cassaintegrato di un capo della squadra dei Verdi. È stata una bella esperienza pure quella, anche se è ovvio che essendo un film con dei problemi produttivi alla base, si possono creare dei malumori o dei ritardi sul set. Il regista, Stefano Lorenzi, era l’assistente alla regia di Virzì e purtroppo è stato sfortunato nella scelta di questa opera prima.

Visto che si sta parlando di problemi legati all’economia e all’industria cinematografica, come vi siete organizzati per la distribuzione di Fino a qui tutto bene?

Per Fino a qui a tutto bene abbiamo fatto tutt’altra cosa. Abbiamo saltato tutto quello che era il sistema di produzione e distribuzione standard. Abbiamo prodotto e finito il film a nostre spese e poi dopo abbiamo chiesto aiuto per la distribuzione, ma solo ad opera conclusa. Perché spesso sai, o hai l’attore famoso o il regista famoso o altrimenti in Italia è difficile trovare una strada tramite metodologie e canali canonici.

Arriviamo a parlare di teatro. Debutti nel 2000 con Il racconto d’inverno e nella stagione 2013/2014 arrivi a girare l’Italia con il Pinocchio di Ugo Chiti. Com’è stata questa tua ultima esperienza?

Pinocchio rappresenta l’opera più gratificante a cui ho partecipato. E gratificante è stato lavorare con Ugo Chiti e l’Arca Azzurra, una delle più importanti compagnie teatrali toscane, conosciuta in tutta Italia per la sua vena popolare, ma non amatoriale, grazie ad attori professionisti che sanno costruire un teatro vicino alla gente con un linguaggio semplice e contemporaneo. Anche Pinocchio è diverso dalla tradizione classica: è un Pinocchio nero e oscuro che mantiene tutti quei lati della favola di Collodi. Il Pinocchio più vicino a quello di Ugo e quello di Collodi era quello televisivo di Comencini che sapeva trasmettere angoscia. Anche perché Pinocchio è una storia drammatica di assassini, ladri, delinquenti, di un ragazzo bersagliato da situazioni tragiche. Quello che ha fatto Ugo Chiti è di aver fatto un Pinocchio oscuro, ma non dark, non alla Tim Burton, ma che sa trasmettere delle verità (anche strazianti e drammatiche) sulla favola di Collodi che non erano ancora state portate in scena. La messa in scena dello spettacolo dava risalto ai costumi molto sgargianti dei personaggi e agli elementi scenografici in legno.

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Tra le molte rappresentazioni teatrali a cui hai preso parte mi è caduto l’occhio su un titolo eccentrico: U.S.D.E., per la regia di Dimitri Galli Rohl, portato in scena a Roma nel 2009. Ce ne vuoi parlare?

usdeU.S.D.E. (acronimo per Unione Sociale per una Destra Estrema) è una rilettura politica dell’Amleto di Shakespeare. La sigla U.S.D.E. è nata da una mia improvvisazione, italianizzando la prima battuta dell’Amleto («Who’s there?»). Lo spettacolo è una specie di Amleto in chiave fascista, dove Amleto è un fascistone e lo zio di Amleto (che nella storia originale è considerato comunemente il cattivo, avendo avvelenato il padre di Amleto) è un comunista. Dimitri Galli Rohl, come testo di riferimento ha utilizzato Il primo Amleto, non quello che comunemente leggiamo, bensì un testo più breve. È uno spettacolo dove appaiono degli skinheads, supporters invasati di questo padre morto che rappresenta quasi un Mussolini e tutto questo ti porta a parteggiare per lo zio. Io ho partecipato anche alla scrittura dello spettacolo e mi sono occupato del monologo di Ecuba. Lo spettacolo poteva essere letto in diversi modi: c’era la dimensione del dolore continuo, del potere e della violenza, e poi la dimensione dissacrante a cui ho contribuito maggiormente.

Quali saranno i tuoi prossimi impegni lavorativi?

Adesso ho in cantiere un nuovo spettacolo teatrale con l’Arca Azzurra insieme ad Alessandro Benvenuti, attore bravissimo e persona bellissima, che ho conosciuto sul set della seconda stagione (diretta da Roan Johnson) de I delitti del BarLume. I nuovi episodi andranno in onda da Maggio su Sky e in questa tranches di episodi il personaggio di Marchino sarà più rilevante, mentre la terza stagione è ancora in fase di scrittura e sarà anch’essa diretta da Johnson.

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Tomas Ticciati
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