Mommy di Xavier Dolan

Recensione e approfondimento su”Mommy” del miston canadese Xavier Dolan

 Mommy (Mommy, Xavier Dolan, 2014). Con Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément.

Mommy

2015. In un Québec di finzione il parlamento approva la legge S-14: un progetto correttivo che permette l’internamento di figli problematici in apposite strutture senza autorizzazione sanitaria. Steve (Pilon) è un adolescente con disturbi di iperattività e deficit di attenzione che facilmente sfociano in blackout di violenza come quello costatogli l’espulsione da un istituto di recupero. Diane (Dorval), madre vedova, schietta bellezza di periferia, si trova sola ad affrontare la doppia sfida di ricostruirsi una vita nel nuovo quartiere e riuscire laddove psicologi e insegnanti hanno fallito. Madre e figlio, forzatamente ricongiunti, impiegano pochi istanti a mostrarsi in un singolare rapporto fatto sì di volgarità, screzi e turpiloqui, ma anche di affetto e fisicità; provocazioni edipiche e lampi di violenza che Diane stenta a contenere, prodigandosi tra casa e mondo per sbarcare il lunario. A completare il duo entra in scena la signora della porta accanto, Kyla (Clément), una misteriosa insegnante in congedo, che a seguito di un grave dramma, forse la perdita di un figlio, è diventata balbuziente. Equilibrio raggiunto: Kyla con Steve riprende a operare nella propria vocazione, il ragazzo per certi versi migliora e Diane può districarsi agevolmente tra casa e lavoro. Amore, quotidianità e dedizione appaiono in grado di lenire tutte le ferite dei protagonisti, ma questa armonia può durare finché non arriva un conto da pagare, da allora sarà necessario “allungare il vino con l’acqua”.

mommy_aPer noi, trascurati cittadini della periferia cinematografica (e non solo), questa è un’ opera prima. Dei cinque lungometraggi finora realizzati dal prolifico cineasta canadese classe 1989, “Mommy” è il primo tradotto e distribuito nel nostro paese. Come un fulmine a ciel sereno, prima ancora del film nelle sale, è arrivata l’eco dell’impatto prodotto in Canada e Francia (Festival di Cannes 2014, premio della giuria ex-æquo con “Adiueu au Langage” del maestro Jean-Luc Godard.) Con “Mommy”, Dolan si scrolla di dosso tutta una serie di refusi pop rintracciabili nel blog hotmail (a lui caro) di un qualunque adolescente degli anni zero, che potevano rendere vulnerabile il suo cinema a disamine condivisibili da parte della critica più spietata, tra cui quelle dell’ancien régime del cinema d’autore francese. Sfoltendo l’uso esagerato di espedienti divenuti kitsch quali boccate di fumo, primi piani su posacenere e tazze di thè, scelte apparentemente banali in colonne sonore troppo-pop, Dolan progredisce rispetto ai precedenti “J’ai tué ma mère” e “Les Amours imaginaires“. Il processo di maturazione determina un’estetica che non lascia niente al caso.

mommy2La cura maniacale per il dettaglio, dalla scenografia ai costumi, su cui il regista estende il proprio controllo totale, costruisce immagini vitali, dalle colorazioni energetiche e toni luminosi. Una peculiarità stilistica l’uso della canzone associato a sequenze mute, un incontro piacevole tra cinema e videoclip. La riproduzione integrale a “tutto volume” di un repertorio popolare (Oasis, Dido, Celine Dion, Einaudi, Bocelli, Lana Del Rey, Eiffel 65) consente a Dolan di regalarci digressioni catartiche all’interno del dramma.

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Sarebbe ingeneroso parlare di ego smisurato piuttosto che di uno stile connotato e coerente: Dolan è Autore. Uno stile fatto di scene al ralenti e inquadrature serrate, ritratti dai quali è impossibile distogliere lo sguardo. Magistrale, e applauditissimo a Cannes, il cambio di formato: il campo visivo che si allarga nelle proiezioni sognanti di una madre, dalla visione claustrofobica ed emarginata del 1:1 all’illusione dell’ american dream, miraggio in formato 1,25:1 che per un attimo induce al cosiddetto effetto “polpettone”. Il sogno americano è uno dei nuclei su cui orbita la vicenda, scritta ispirandosi a un fatto di cronaca made in USA. Il duro lavoro e la cieca determinazione non sempre sono sufficienti a raggiungere il benessere e l’accettazione sociale: ciò che nel 2015 rimane del vecchio sogno americano è un rigido progetto di ingegneria sociale, plasmato per una categoria limitata di persone dalla quale Steve e Diane sono tagliati fuori in partenza, al di là della sfortuna biologica che predispone alla malattia mentale. L’artificio narrativo della legge S-14 è congeniale e incanala il pessimismo dell’autore in una visione distopica collocata temporalmente a ridosso dei nostri giorni. Con la leggerezza dei grandi Dolan scortica e mette in dubbio alcuni dogmi della società americana e occidentale in senso lato. Il tema madre-figlio è ampiamente discusso nelle varie declinazioni possibili e immaginabili, dai testi sacri alla tragedia greca fino al cinema, passando per letteratura e psicoanalisi.

Commovente la citazione de “I quattrocento colpi” con le gocce di pioggia sul vetro esterno dell’automobile che rimandano alla lacrima di Antoine Doinel deportato in collegio. Eppure, nonostante i paragoni ingombranti, Dolan riesce a divincolarsi dalle soggezioni e dai rischi di scadere nel televisivo o nel melodrammatico, aprendo interrogativi coraggiosi. Può l’amore di una madre bastare nell’educazione (e la cura) di un figlio problematico? Un’eventuale rinuncia all’abnegazione significa egoismo? Ogni madre è una risposta.

Leo D’Arrigo

Tomas Ticciati
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