Mattia Querci, un talento livornese

Il giovane regista, vincitore del Fi Pi Li Horror Festival, racconta sua visione dell’orrore: “Mi piace quello applicato al tema del fortino, dei protagonisti prigionieri del loro nascondiglio”

Mattia Querci è un giovane regista livornese. I cortometraggi horror sono la sua passione e il genere sul quale si è adoperato con grandi capacità tanto da vincere nella scorsa primavera il primo premio al prestigioso FI-PI-LI Horror Festival. Tuttomondo di Ottobre tratta il mondo dell’horror in tutte le sue sfaccettature e non poteva non incontrare un regista di cortometraggi che pur nella sua ancor breve carriera ha percorso questo genere in modo proficuo. Ad accompagnarlo nella sua avventura registica c’è anche la sua factory Ratto Robot, ma lasciamo che sia lui a raccontarci passato, presente e futuro di questa squadra vincente dell’horror toscano.

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Ti chiedo subito quali sono stati i tuoi primi passi nel mondo della settima arte. Qual è stata la scintilla che ti ha fatto intraprendere questa carriera?

I miei primi passi sono stati da spettatore. Mi piacciono le storie e mi affascinano i modi diversi in cui ogni autore utilizza la macchina da presa per raccontarne. La “scintilla” che mi ha fatto passare dall’altro lato dello schermo? Sicuramente l’incontro con persone che condividevano la mia passione ed entusiasmo.

66Selfie è il primo corto che hai caricato sul tuo canale YouTube. È anche il primo che tu e lo staff di Ratto Robot avete realizzato a livello cronologico?

Si. In realtà Ratto Robot è nato “dopo” 66selfie. Inizialmente non avevamo un progetto ben definito ma, finite le riprese, ci siamo resi conto che avremmo voluto lavorare ancora insieme e che, per questo, ci serviva un nome, un’immagine.

66Selfie, nei suoi 3 minuti e mezzo scarsi, riesce a mettere insieme una critica alla moda imperante del selfie, un utilizzo classico del mass-media visto come veicolatore del “contagio” e una tecnica che mischia mockumentary e found footage. Com’è nata l’idea per questo tuo lavoro?

È nata da una concezione precisa di cinema dell’orrore: siamo convinti che la forza del genere sia il riuscire a mettere in luce aspetti della società che, altrimenti, sarebbe difficile affrontare. Non abbiamo inventato niente: sono quarant’anni che gli “zombie”, quelli fatti bene, ci sbattono in faccia le nostre contraddizioni. Prima di arrivare al soggetto di 66selfie abbiamo preso in considerazione altre tematiche che ritenevamo interessanti ma, alla fine, abbiamo optato per qualcosa che fosse il più immediato e riconoscibile possibile.

Con FLU hai vinto il primo premio come miglior corto al festival horror livornese FI-PI-LI Horror Festival. Sei riuscito a vincere nonostante è nota l’avversione agli zombi e agli infetti del presidente di giuria Ruggero Deodato? Come sei riuscito a scardinare le sue convinzioni?

Credo che la migliore risposta sia quella data dalla stessa giuria del festival. In un’annata “magra”, con pochi lavori degni di nota, è stato premiato il corto che, nel suo piccolo [FLU è costato meno della pizza che abbiamo mangiato a fine riprese] è riuscito a raccontare una storia chiara in modo conciso.

Il cognome del protagonista di FLU è Bava mentre il suo domicilio è sito in Via Romero. Due nomi che non hanno bisogno di presentazioni per gli appassionati di cinema horror. Ma per Mattia Querci, regista ma soprattutto spettatore, quanto importanti sono stati Mario (e/o Lamberto) Bava e George Romero nella sua formazione cinefila? Ci sono altri nomi, oltre a questi due pilastri del passato, che pensi ti abbiano influenzato nel tuo percorso artistico?

Romero ha dimostrato che l’horror, più di altri generi, è adatto a mettere a nudo la società. A farlo in maniera schietta, feroce. I sopravvissuti, nel supermercato, mi fanno più paura degli zombie. Per i Bava è un altro discorso: Lamberto, a cui mi sono avvicinato per primo, mi ha insegnato a non prendermi sul serio. Con tutti i suoi difetti Demoni era e resta un horror tra i più divertenti. Tante produzioni, mi viene in mente Dead Snow, devono qualcosa a quel modo di fare cinema. Mario Bava è un’altra cosa, un gusto per l’immagine che in Italia non esiste più. Un altro nome che mi ha influenzato è sicuramente quello di Carpenter: mi piace l’horror applicato al tema del fortino, dei protagonisti prigionieri del loro nascondiglio (Distretto 13, Il signore del male, La cosa). Non sono l’unico, di film così ce ne sono a bizzeffe, uno su tutti Ils, del 2006.

Banana Slum, l’ultimo corto che ho visto delle produzioni Ratto Robot, abbandona i toni dell’horror del contagio per spostarsi su toni noir con una spruzzata di ironia, demenzialità (la banana come pistola mi ricorda Mel Brooks o La pallottola spuntata) e meta cinema in post-produzione. Come vi è venuta in mente questa storia?

Banana Slum è nato quasi per scherzo. Volevo raccontare una storia ad incastro, fare un po’ di confusione con i piani di realtà e, magari, prendere un po’ in giro la moda di fare video tutorial. Non so se ci sono riuscito. Inizialmente è stato pensato come un western, un duello tra cowboy. Per motivi di produzione il deserto si è trasformato in un vicolo ma i brutti ceffi sono rimasti gli stessi.

Puoi presentare ai lettori di Tuttomondo i tuoi più stretti collaboratori?

Leonardo Battaglia è il nostro direttore della fotografia, mentre Francesco Querci, Cristina Florio e Nicola Pomponio gli attori che hanno collaborato in tutte le produzioni.

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Qual è il vostro modus operandi? Come arrivate all’idea, al soggetto e poi alla messa in scena del cortometraggio?

La parte fondamentale è il confronto. Ognuno ha le sue idee, i suoi punti di vista e ci piace discuterli tutti insieme (tra un cazzeggio e l’altro). I soggetti vengono fuori così, a volte per caso, a volte scontrandosi. Quando sentiamo di aver trovato la direzione giusta, allora comincia la parte difficile. Mettere in scena un corto, anche brevissimo, richiede una dedizione e uno stress non indifferente. 66Selfie, per quei pochi minuti di inquadrature statiche, ha significato diversi giorni di riprese, altrettanti di postproduzione e una discreta quantità di imprevisti. Per questo, anche se ci accreditiamo alla fine di ogni lavoro, curiamo insieme ogni aspetto della produzione.

A livello tecnico, con quali strumentazioni lavorate nei vostri cortometraggi?

La macchina da presa è una Sony a58. Utilizziamo obiettivi “vintage”: Minolta AF che fanno egregiamente il loro lavoro. Il resto dell’attrezzatura, a parte un fresnel che ci “siamo regalati” dopo la vittoria del FiPiLi, è tutto “fai da te”. Il nostro direttore della fotografia è un mago nella realizzazione di attrezzatura low-cost e, proprio con Banana Slum, abbiamo iniziato ad utilizzare uno stabilizzatore creato da noi, una “handycam”, che speriamo di riuscire a perfezionare ulteriormente.

Hai intenzione di presentare i tuoi lavori ad altri festival nazionali? O sei proiettato alla realizzazione di nuovi lavori?

Partecipare ai festival è sempre una soddisfazione e, soprattutto, un’occasione di incontrare altri appassionati come noi. Ma non è la nostra priorità. Ci piace lavorare insieme, siamo in fase di stesura di un nuovo lavoro e, per ora, ci stiamo concentrando su quello.

Tomas Ticciati

Tomas Ticciati
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