L’ultima sfida di Puškin: morire come il suo Lenskij

Yevgeny_Onegin_by_Repin

I. E. Repin, Il duello tra Onegin e Lenskij.

Tu solo, per te, sei l’oggetto più degno di rispetto, nessun altro più amabile potrai mai trovare.

Destino davvero beffardo quello del poeta, saggista, drammaturgo e scrittore russo Aleksandr Sergeevič Puškin (Mosca 1799 – San Pietroburgo 1837), morto a soli trentasette anni in un duello con le pistole, proprio come uno dei protagonisti del suo romanzo in versi Evgenij Onegin.

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Aleksandr Puškin in un ritratto del 1827 di Vasilij Andreevič Tropinin.

Tra i primi scrittori professionisti in Russia, che viveva cioè del suo lavoro, Puškin acquistò fama per Ruslan e Ljudmila (1820), poema eroicomico il cui stile ricorda quello dell’Orlando Furioso, e per i cosiddetti “poemi meridionali”, tra cui Il prigioniero del Caucaso (1820-1821) e La fontana di Bachčisarai (1822), scritti durante l’esilio nel sud della Russia per le sue frequentazioni di circoli di sinistra, così come il racconto in versi Gli zingari (1824), con cui congeda il ciclo.

Già tra il 1823 e il 1824, quando ancora era in esilio, Puškin aveva composto anche i primi due capitoli del romanzo Eugenio Onegin, in versi (389 stanze in tetrametri giambici) perché secondo lui le tecniche narrative russe non erano ancora pronte per la sfida di un romanzo in prosa.

Lo pubblica a puntate, nell’arco di sette anni, tra il 1824 e il 1831. Senza una fine vera e propria, s’interrompe in realtà sul più bello. In effetti, nel corso della stesura, Puškin fu accusato di non sapere più di cosa parlare. Inoltre, l’estensione nel tempo della scrittura comporta delle contraddizioni interne: il protagonista del primo capitolo non è lo stesso dell’ultimo, ma nemmeno del secondo.

“Quel buonuomo di mio zio! Guarda cosa ha escogitato per aver rispetto quando non per scherzo s’è ammalato. Il suo esempio farà scuola; ma, perdio, che noia stare giorno e notte a un capezzale, senza muoversi d’un passo! E che bella ipocrisia coccolare un moribondo, rassettarlo sui guanciali, dargli farmaci e conforti, sospirando dentro sé: ma che il diavolo ti porti!”

L’inizio del poema coincide con l’arrivo del protagonista, il giovane dandy Eugenio Onegin, nella tenuta agricola dello zio, dove è costretto a rifugiarsi poiché, alla morte del padre, si ritrova fortemente indebitato e ha i creditori alle calcagna. Con un espediente narrativo molto moderno, Puškin porta se stesso nella trama del romanzo, dicendo che il protagonista è un suo amico. Ben presto Eugenio diventa dal canto suo amico del giovane Lenskij, che rappresenta nella logica del romanzo il romanticismo

Frontespizio della prima edizione dell'Evgenij Onegin del 1833

Frontespizio della prima edizione dell’Evgenij Onegin del 1833

tedesco. Questi s’innamora di Olga, sorella di Tatiana, che vive nella tenuta accanto a quella di Onegin, e da cui è a sua volta affascinata. Per Puškin Tatiana è l’anima russa, ragazza sì nobile, ma di campagna. E di contro Onegin adombra la cultura globalizzata, occidentale.

“L’abitudine ci è data dall’alto: essa è il surrogato della felicità”

Tatiana decide di scrivere un’accorata lettera d’amore a Eugenio (in questo i personaggi sono molto vicini a noi, seppur lontani nel tempo e, se vogliamo, nello spazio); ma lui, nella famosa scena del giardino, la respinge. E, tanto per chiudere l’intreccio amoroso, comincia a corteggiare Olga, fidanzata ufficiale di Leskij. Il quale, sentitosi tradito dall’amico, lo sfida a duello. Con le pistole. All’alba del giorno dopo, in una scena drammaticamente descritta da Puškin con un sapiente pathos, una pallottola fatale sparata da Onegin uccide il povero Lenskij.

Onegin fugge via, e comincia una serie di viaggi. Tatiana entra in casa sua, così bruscamente abbandonata, guarda i suoi libri, le sue lettere, ne ricostruisce il percorso intellettuale, e si accorge che Onegin è in realtà un personaggio creato secondo delle tendenze, che non ha radici in Russia, è la parodia di un giovane inglese byroniano disilluso, con degli aspetti comunque positivi quali una certa profondità e il suo mettersi in gioco. Tatiana fa sue tutte queste tendenze, ma con spirito critico.

“Come tutti siete uguali all'antica madre Eva: ciò che vi è offerto non vi affascina; incessantemente il serpente vi chiama a sé, all'albero misterioso; è il frutto proibito che devono darvi, perché senza di esso il paradiso non è più tale”

Nel frattempo la sua famiglia, che versa in gravi condizioni economiche, la prega di sposarsi, per cui va a Mosca e prende in marito un principe e generale dell’esercito. Guarda caso, il principe in questione è proprio un cugino di Onegin. I due s’incontrano casualmente a distanza di anni dal tragico duello, e quindi dalla fuga di Eugenio, il quale è invitato dal suo parente a partecipare a un ricevimento. Qui, incredulo, ritrova Tatiana, profondamente cambiata: leonessa del mondo urbano, gli uomini della città sono tutti ai suoi piedi.

Ora è Onegin che s’innamora di Tatiana, e le scrive a sua volta una lettera, molto bella, ma lei, fredda come il ghiaccio, lo ignora. Dopo altre lettere, Onegin riesce a entrare nel salotto di Tatiana, dove la trova piangente con in mano una delle lettere: lui si butta in ginocchio ai suoi piedi, ma lei non cede. Tatiana lo ama ancora, ma ora è sposata e sarà fedele: lo spirito nazionale è diventato maturo. La vera libertà, che è poi anche la vera sfida, sta nel tenere fede alle proprie responsabilità: la ricchezza, l’opulenza, il lusso, sono solo la commedia sotto cui stanno ben altri valori, quali appunto la fedeltà, l’onestà, che lei vorrebbe recuperare, accanto alla spensieratezza dell’infanzia, di cui ha nostalgia, che rappresenta l’epoca d’oro della società russa. È questo l’estremo rifiuto puskiniano del superomismo byroniano: la libertà si ottiene all’interno di un complesso sociale.

“E dover armare invece ogni sguardo, ogni parola di freddezza simulata, conversar con voi tranquillo e guardarvi lieto in viso! Quel che sia: non ho più forza di resistere a me stesso; ho deciso: a voi m’arrendo, m’abbandono al mio destino”

Tutta la sua restante produzione si concentra negli anni ’30: Storia della rivolta di Pugačë (1834), romanzo storico che ebbe scarso successo; La figlia del capitano (1836), ambientato durante la rivolta di Pugačëv, in cui il protagonista, anche attraverso le storie dei suoi antenati, è in qualche modo la trasposizione dell’autore; il ciclo delle “piccole tragedie”, come la Dama di picche (1834), che sono solo esperimenti caratteriali; Il cavaliere di bronzo (1833, pubblicato nel 1841), romanzo storiosofico in cui il cavaliere di bronzo altro non è che la statua di Pietro il Grande, edificata per volere di Caterina II a San Pietroburgo. Tuttavia morì prima di portare a termine alcune sue brillanti intuizioni, e proprio quando le sua fortuna letteraria attraversava una fase di declino.

Il barone francese George d’Anthès sfidò Puškin a duello. Ancora una volta, con le pistole.

L’8 febbraio 1837, alle 4 del pomeriggio, alla Čërnaja Rečka di Pietroburgo, dove oggi si trova una fermata della metropolitana, e una statua del poeta a ricordare che quella sfida gli fu fatale. Questa volta, infatti, la pallottola mortale era destinata a Puškin, che rimase ferito gravemente, e morì due giorni dopo la sfida, il 10 febbraio 1837, all’età di trentasette anni, per complicazioni infettive.

Aleksandr Puškin in un ritratto del 1827 di Vasilij Andreevič Tropinin

Il barone francese George D’Anthès, che uccise Puškin in duello.

Una morte ancora oggi avvolta dal mistero, e che Serena Vitale ha cercato di ricostruire, insieme agli ultimi mesi di vita, nell’avvincente romanzo Il bottone di Puškin (Adelphi, 2000), così intitolato perché una leggenda vuole che il barone si sia salvato grazie a un bottone che respinse la pallottola del poeta. Morto in un duello di pistole, così come il suo Lenskij, che alla fine, anziché Onegin, si rivelò il vero alter ego di Puškin, accomunati da una stessa fine.

Francesco Feola

 

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