La splendente provincia siriana dell’impero romano: Palmira

La Sposa del Deserto, Tadmur, Παλμύρα; siamo nel 200 d.C. e Palmira non è una città siriana come le altre: oasi in mezzo al deserto della Siria, prospera a metà strada, a 240 km a nord-est di Damasco e 200 km a sud-ovest della città di Deir ez-Zor, tra le coste del Mediterraneo e l’Eufrate.

Menzionata per la prima volta in documenti provenienti dagli archivi assiri di Kanech, nel XIX secolo a.C., anche se la Siria era divenuta provincia romana nel 64 a.C., Palmira mantenne una certa autonomia fino a che, durante il regno di Tiberio, non fu annessa ufficialmente alla provincia romana di Siria.

Vitale centro carovaniero, collegava l’Occidente di Roma e le principali città dell’impero con l’Oriente della Mesopotamia, della Persia, dell’India e della Cina.
Parte dell’impero romano, che a quei tempi aveva raggiunto il proprio apice, nelle strade di quella città civilizzata e colta ma vicinissima alla non-civilizzazione nomade, si parlava l’aramaico; il greco, però, era conosciuto, parlato e scritto. I passanti, dominati dal massiccio architettonico del santuario di Bel, dio proprio di quel paese, non erano vestiti come gli altri abitanti dell’impero romano: i loro abiti non erano drappeggiati, ma cuciti, e gli uomini indossavano pantaloni larghi al cui fianco pendeva una sciabola, «sfidando il divieto di porto d’armi esteso a tutti i sudditi dell’impero».

Seppur in pieno deserto, disseminato di moltissimi monumenti celebrativi e templi funerari, ogni cosa traspirava ricchezza. Gran parte della superficie cittadina era occupata da edifici pubblici, santuari, terme romane ed edifici destinati agli spettacoli.
Ovunque c’erano statue bronzee (e non marmoree) di imperatori e di benefattori della città.
Anche Plinio il Vecchio, nel suo Naturalis Historia, ci descrive Palmira, mettendone in rilievo la ricchezza e l’importanza per il ruolo che ricopriva come principale via di commercio.

Dopo la caduta di Zenobia, moglie del governatore Odenato, che aveva architettato un complotto per la presa di potere della città, «col sogno e l’ambizione di creare un impero d’Oriente da affiancare all’impero di Roma», Palmira spariva dalla grande storia: fu saccheggiata e le mura furono abbattute; «la città, abbandonata, tornò a essere un piccolo villaggio e divenne una base militare per le legioni romane».
Durante la dominazione bizantina furono costruite alcune chiese, ma la città aveva ormai perso importanza. Nonostante il rinforzo murario e la guarnigione dell’imperatore Giustiniano, la città venne infine conquistata dagli Arabi di Khalid ibn al-Walid e, sotto il loro dominio, andò in rovina.

In rovina come i resti archeologici, oggi, per mano dell’auto-proclamato Stato islamico, l’ISIS, e delle sue milizie jihadiste: il tempio di Al-lāt, dea pre-islamica, il tempio di Bel, il tempio di Baalshamin, il Tetrapylon, il teatro romano, la necropoli. Una rovina senza senso che ha portato con sé anche l’archeologo Khaled al-Asaad, direttore del museo e del sito archeologico della città di Palmira, e con lui e prima di lui, molti altri.

Nel dolore e nell’angoscia, ma anche nella rabbia, cerchiamo di ricordare la Palmira straniera per via del suo passato, della lingua, della società e dei costumi; ricordiamo quella Palmira che non aveva niente da invidiare alla civilizzazione mondiale del tempo del mondo romano: «Gli abitanti di Palmira non erano dei barbari e non volevano esserlo».
Palmira era un centro di potere, una città splendente ma soprattutto era una vera e propria vetrina di civiltà; civiltà che spesso dimentichiamo essere faro contro l’ignoranza cieca del terrore.

Fonti utilizzate: “L’impero greco-romano, Le radici del mondo globale” – Paul Veyne

Elisa Berrugi
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