Il raffinato post rock dei Nova Sui Prati Notturni

Post rock, ricerca artistica e intellettualismo. C’è tutto questo nella musica dei Nova sui prati notturni, un gruppo di Vicenza formato da Massimo Fontana (chitarra, voce, testi), Federica Gonzato (basso, voce, testi), Giulio Pastorello (chitarra, batteria, voce, glockenspiel) e Gianfranco Trappolin (batteria, chitarra, basso, voce). Nel 2011 esordiscono con il primo album, intitolato L’ultimo giorno era ieri, per l’etichetta Dischi obliqui, intraprendendo una strada musicalmente eterea tra storia e poesia del 900. Continuando sulla strada della letteratura realizzano, sempre per Dischi obliqui, l’album Paris 1971, tratto dalla prima opera post-rock del gruppo, dedicata a Rimbaud e Morrison, in collaborazione con il critico letterario Marco Cavalli, il pittore Manuel Baldini e il videomaker Fabio Ferrando.
Nel 2013 esce Opera mutante # 1, nel 2014 Holodomor, colonna sonora del documentario Holodomor, la memoria negata dedicato alla grande carestia che negli anni 1932 e 1933 colpì l’Ucraina, allora parte dell’Unione Sovietica.
Nello stesso anno esce Frank, splendido concept album ispirato al Frankenstein di Mary Shelley. Di tutto ciò parla Massimo Fontana, voce di questa particolare band.

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A cosa si riferisce il vostro nome? Riguarda esclusivamente fenomeni astronomici?

«Nova sui prati notturni evoca qualcosa che incombe, un suono che sta per arrivare, rumore inteso come momento di passaggio; e mettici anche che notte e cielo stellato si addicono alla nostra musica».

Nella vostra carriera avete lavorato con visual e digital artists. Con quale ruolo hanno collaborato con voi? L’intenzione era quella di dare un supporto visivo e artistico alla vostra musica?

«Sì, però la collaborazione con Fabio Ferrando (videomaker) e Manuel Baldini (pittore), e non solo, è sempre stata finalizzata alla ricerca di un equilibrio tra musica e immagini e non è un lavoro facile questo, perché richiede un’opera di messa a fuoco dei significati in gioco, che se fai solo musica puoi considerare meno e invece per noi definiscono gli oggetti tra i nostri suoni e le immagini che li accompagnano».

In Frank il pezzo Code ha un andamento abbastanza shogaze. I My Bloody Valentine e gli Slowdive hanno influenzato il vostro concept?

«Capisco i riferimenti e apprezzo quei gruppi, ma credo che quelli che più ci hanno influenzato vengano cronologicamente prima. Il pezzo citato mi sembra debitore del post-rock, del dark primi anni Ottanta e del cantautorato italiano anni Settanta. È una strana creatura».

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Come mai la scelta di creare un concept album sul Frankenstein? Avete voluto riprendere la tradizione dei concept degli Alan Parson’s Project (I Robot e Tales Of Mistery and Imagiantion) basati sui racconti di Asimov ed Edgar Allan Poe?

«Nel nostro caso mi viene comodo citare il sito Ondarock in cui Michele Saran ha definito Frank “la prima opera post-rock in assoluto”. I NsPN sono partiti dalla musica post-rock (inteso come prendere basso, batteria e chitarre per usarli “impropriamente”, non rifacendosi alla tradizione rock) e l’hanno incardinata in una struttura narrativa che coinvolge non solo e non tanto i testi, ma soprattutto i suoni. Nel particolare, abbiamo scelto il Frankenstein perché è un’opera che continua a dirci molte cose».

State lavorando a un nuovo album, Non Expedit. Leggendo questo titolo mi viene in mente la disposizione politico/religiosa nella quale Pio IX impedì ai cattolici di votare. Ma credo sia solo una coincidenza. Non Expedit vuol dire “non conviene”… Nell’album ci sono fatti storici che volete raccontare con questo titolo latino così incisivo e sentenzioso?

«Non expedit, nonostante sia latino, alla fin fine “suona bene”, quasi fosse inglese e questo mi fa pensare all’ovvio, che l’inglese sia l’attuale latinorum, la lingua del potere di oggi, che fagocita anche la nostra. Il declino di una lingua corrisponde al declino di un pensiero e di un’intera cultura. Poi certo, anche i NsPN sono americanizzati, inglesizzati, e testimoni…
Ma soprattutto c’è il significato letterale: “non conviene”. Parto dalla constatazione che l’arte concepita nell’indipendenza di pensiero e di azione di rado conviene. Cioè, nessuna opera d’arte appena decente scaturisce da un calcolo di convenienza inteso come tornaconto, persino nel rock. E se poi il tornaconto arrivasse, comunque non inficerebbe questo ragionamento. La chiave è l’azione disinteressata e staccata da ogni logica non legata all’opera, che credo debba essere fine a se stessa. Non expedit è il titolo del nostro album in uscita e anche del brano che lo chiude, dedicato a Pavel Florenskij».

Una curiosità: avete musicato i versi di Aldo Palazzeschi e tradotto un canto degli Alpini. Perché questa scelta? Volete dare nuova memoria ai poeti e alle tradizioni del passato perché non vengano perse?

«Considero il nostro contributo alla memoria un’imprevista e piacevole conseguenza. Credo che legare il proprio lavoro a dei contenuti e a degli autori di valore sia un’opportunità per ragionare in termini di elevazione, espressione fuori moda pure questa, ma che credo significhi ancora qualcosa, nonostante si faccia a gara in quasi ogni consesso umano per abbassare la nostra storia a quella delle formiche o del terriccio. Poi anche noi nei nostri brani parliamo prevalentemente di viaggi, di sogni, di sentimenti e di cose che ci accadono, come tutti, come sappiamo fare, ma ovvio che musicare L’orto dei veleni è la tipica operazione che tende a suscitare curiosità. Signore delle cime di De Marzi, invece, e per dire, la cantavo al campeggio estivo davanti al fuoco la sera, quando ero bimbo, e rifarla nel 2010 in chiave post-rock è stata, io credo, un’operazione quasi naturale, che lega allo stesso filo ciò che siamo stati e ciò che siamo adesso».

Il pubblico come ha recepito la vostra musica fatta di storia, letteratura e arte? Ha avuto difficoltà a comprenderla e apprezzarla?

«Messa così, la questione, intimorisce un po’ anche me, perché alla fine i NsPN concepiscono e realizzano brani post-rock, alcuni più eterei e altri più legati al ritmo, e la nostra intenzione non è quella di provocare il pubblico, ma di intrattenerlo. Credo che l’album Frank, per esempio, pur nato come opera post-rock dedicata al romanzo di Mary Shelley, non ne porti il peso: si tratta di una semplice opportunità espressiva.
Se alcuni non gradiscono la nostra proposta credo non sia per i temi che trattiamo, che ribadisco, sono solo in parte legati alla letteratura, ma bensì per come trattiamo i suoni: batteria, basso, due chitarre che dialogano continuamente e voci che s’inseriscono in questo gioco. Un gioco che si può apprezzare o disprezzare solo dopo che lo si è accettato, ascoltando un nostro lavoro. Per questo le parole che abbiamo speso fino a qui non bastano».

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Virginia Villo Monteverdi

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