Musica, social e società: intervista al produttore artistico Nicola Baronti

In un periodo fatto di infiniti rimandi e connessioni abbiamo voluto indagare, attraverso le parole di un esperto, come musica e social siano costantemente interconessi, e come i social abbiano influenzato la produzione musicale nell’ambito del circuito indipendente italiano. Tuttomondo ha così intervistato Nicola Baronti, produttore artistico e direttore dell’etichetta discografica indipendente Phonarchia Dischi con sede a Montecchio (Peccioli) per farsi raccontare come la musica indipendente italiana si sta ponendo nei confronti del fenomeno social e viceversa. L’iper connessione dei giorni nostri ha davvero modificato certi atteggiamenti professionali e tendenze artistico/musicali? E la musica proposta rispecchia questo distaccato e schizofrenico andamento telematico delle nostre vite? Lasceremo la parola a Nicola in questa approfondita intervista.

Nicola Baronti presso il suo studio di registrazione La tana del bianconiglio. (foto di Saiara Pedrazzi per g.c.)

Nicola Baronti presso il suo studio di registrazione La tana del Bianconiglio. (foto di Saiara Pedrazzi per g.c.)

Secondo la sua esperienza di produttore come è cambiata la produzione artistica dei gruppi rock italiani indipendenti da prima dell’esplosione social ad ora?
«Il cambiamento è iniziato da poco, 10 o 20 anni fa non esistevano i social e sicuramente non c’erano nemmeno tutti questi gruppi di musica inedita. Quando ero ragazzino io non c’era il cellulare o internet per comunicare immediatamente, e la parola data era la cosa più importante. In quel periodo c’erano solo veri produttori che facevano vere produzioni, buone o non buone che fossero, ma i produttori erano pochi e molto conosciuti. Ora con l’esplosione di quel mondo alternativo/underground così chiamato, oltre a esserci una marea di gruppi (che è un bene) ci sono anche un sacco di produttori! Pensa che tutti e tre i membri degli Zen Circus fanno i produttori, così anche Favero del Teatro degli Orrori, Pipitone di Marta sui tubi e Alosi de Il Pan del Diavolo e molti altri. Ora sono sempre più i musicisti che fanno i produttori, non solo chi come me si dedica esclusivamente a questo tipo di lavoro».

E sono i social in primo luogo a generare questo nuovo approccio alla produzione…
«Si, sicuramente. È la facilità di comunicazione social che porta alla creazione di questi piccoli mondi e a queste figure ibride. I ragazzini che seguono un gruppo sui social conoscono il suo giro, vedono la facciata, vedono il gruppo che suona live, vedono che è figo e come prima cosa contattano i musicisti che lo compongono. A loro chiedono una produzione, non a chi lo fa di mestiere. Tutti producono, questo è il grande cambiamento».

Come sono cambiati i gruppi italiani? I testi in particolare e la musica che propongono rispecchiano la superficialità stratificata del mondo dei social network?
«Io sono figlio degli anni 80, ho vissuto i prodotti televisivi e musicali di bassissima qualità (Checchetto, Jovanotti, Ramazzotti) del ventennio capitalista e berlusconiano. Se devo dare un giudizio ora mi sembra che la situazione sia cambiata in meglio per quanto riguarda il rock italiano. Quando ero ragazzo si cantava in inglese, poi con la rivoluzione degli Afterhours e in seguito con gli Zen Circus si è recuperato il cantare in italiano, e questa è stata un’ottima cosa.
Se penso ai miei coetanei trentottenni e quarantenni…Loro sono ancora legati a quel periodo dove la musica straniera era il pane quotidiano, e suonano ancora nelle cover band dei Guns ‘n’ Roses. Le giovani generazioni social si, possono essere superficiali, a son di post magari non sarebbero in grado di scrivere una lettera di una pagina. Però almeno i gruppi sono tornati a scrivere in italiano, a provare a scrivere pezzi in italiano. Molti giovani gruppi però non sanno più cosa sia la vita reale, sono distaccati, il foglio bianco fa paura e i testi si scrivono con sempre più difficoltà perché con internet si è persa la vera comunicazione».

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(foto di Saiara Pedrazzi per g.c.)

Come è cambiata la ricezione di un live rock oggi? Spesso lei dice che la gente va a “vedere” un concerto, non a “sentire”. Si presta più attenzione al concetto di “evento” comunicabile attraverso i canali internet o si può ancora parlare di vero concerto?
«Si certo, si parla di evento. La gente va a un concerto per partecipare ad un evento e lo guarda attraverso lo schermo di un telefonino per testimoniare una presenza e farlo sapere agli altri. Partiamo dal fatto che i ragazzi vanno ai concerti per “socializzare”, corteggiare le ragazze, per trovare compagnia e magari fare altro. Pochi vanno per la musica. Però il problema più recente è che i social iniziano a tenere la gente incollata al computer e chiusa in casa. I giovani escono sempre meno. Ci sono molti studi che testimoniano questo fenomeno, soprattutto in America o in Inghilterra dove i social esistono da qualche anno in più rispetto al nostro paese e sono più radicati. Ultimamente le giovani generazioni hanno perso la spontaneità del contatto diretto, e sicuramente preferiscono flirtare attraverso la facciata di Facebook o Instagram piuttosto che uscire e provare a creare dei legami reali. Su internet è tutto più facile, puoi chattare con più persone, hai dunque più opzioni di successo! Con questo fenomeno ad esempio all’estero le discoteche si stanno svuotando e i giovani incontrano sempre più difficoltà ad esprimersi direttamente. I nostri locali soffrono meno questo fenomeno perchè i Calcutta, Motta, Zen Circus e altri riescono comunque a portare pubblico ai concerti, perché hanno testi (il loro punto forte) che riflettono proprio l’insicurezza di questa generazione che non sa affrontare la realtà e si nasconde in modo vigliacco e distaccato dietro una tastiera. Ma ci vuole comunque un “evento” per attirare l’attenzione del pubblico, il concerto non basta più».

Un esempio di questa violenza da tastiera che coinvolge il mondo della musica?
«Ho visto un’intervista di Vasco Rossi in cui lui diceva di essersi accorto che sotto i video di YouTube gli utenti potevano scrivere commenti. In questa intervista Vasco raccontava che sotto un suo video aveva trovato un insulto a lui diretto che diceva così: «Tu morissi di ictus vecchio drogato di merda». Vasco non è abituato ai social e a questo tipo di comunicazione violenta e distaccata, lui è sempre stato abituato a dire le cose in faccia alle persone, come quelli della sua generazione. Pensa che Vasco ha risposto a questo commento, un commento offensivo di chiunque, come in una vera conversazione. E ha detto: «Anche io vorrei che mi prendesse un ictus perché ci sono modi peggiori di morire. Sul fatto che sia un drogato, beh ho fatto di tutto, ma non me ne vanto e non me ne pento. Potrei disquisire sul fatto della merda. Ma in fondo non siamo tutti delle merde?» Che filosofia!
Immagina se questo commentatore avesse incontrato Vasco di persona. Non l’avrebbe mai insultato. Al massimo gli avrebbe detto che era un mito e gli avrebbe chiesto una foto da pubblicare».

Sala di ripresa principale della Tana del bianconiglio. In foto Matteo Fiorino e Lidio Chericoni (foto di Saiara Pedrazzi per g.c.)

Sala di ripresa principale della Tana del Bianconiglio. In foto da sinistra: Lidio Chericoni e Matteo Fiorino (foto di Saiara Pedrazzi per g.c.)

Pensa ancora che come un tempo i pubblici siano latenti e in attesa di una guida musicale generazionale in cui riconoscersi?
«Certo è ancora così. Ovviamente in linea con quella che è la generazione attuale. I casi di Calcutta, di Appino, degli Stato Sociale, del Motta riflettono questo concetto. Sono pochi quelli che vanno dietro al valore musicale, questi possono essere gli ascoltatori dei Calibro 35 che riconoscono in quella band l’alta qualità musicale. Ma il resto delle persone segue il portavoce che più li rappresenta. Calcutta, Motta e Appino ad esempio incarnano quel fallimento generazionale, quello dei giovani che non sanno più che strada prendere, che sono insicuri e spenti e che mandano tutti a quel paese, senza mezzi termini. Hanno indovinato il personaggio perfetto e credibile da incarnare per farsi seguire, non di certo l’intonazione data dall’insegnante di canto! I FASK ad esempio sono davvero credibili, Aimone è un duro e piace un sacco! Il Vasco degli anni 80 da questo punto di vista è stato il più forte di tutti perché la gente continua a riconoscersi nelle sue canzoni nonostante siano passati decenni. Soprattutto il pubblico femminile. Lui le donne le ha fatte sciogliere in modo romantico ma ha anche toccato il loro lato sessuale e carnale».

Ultima domanda: c’è ancora spazio per le subculture e l’underground musicale nell’era telematica in cui tutto si conforma?
«Manuel Agnelli degli Afterhours ha detto una cosa interessante che fa capire questo problema dell’omologazione culturale e musicale: «Ragazzi io ho ormai ho 50 anni e voi siete tutti delle prostitute, siete tutti modaioli, l’underground non esiste più, correte dietro alle tendenze». Ha ragione, la gente elogia i grandi musicisti del passato ma poi si perde dietro alle mode del momento, dimentica tutti i contenuti. Ha ragione, noi siamo tutti modaioli, più modaioli di Barbara D’Urso! Ogni giorno c’è una moda nuova sui social: e il terremoto, e Charlie Hebdo e la Raggi etc. Ora si uniforma tutto, succede nella cultura, nel sociale, nella politica e quindi nella musica. Tutti dicono tutto, il social è così, è una gara all’ultimo post, è un bar di paese pieno di gossip. Tutto ormai è sullo stesso piano, non può più esistere una controcultura in una situazione del genere! Non esiste nemmeno più il vero rock, quello passionale che comunica davvero qualcosa di forte, di schietto, di sentito, di intelligente. Tutto è moda ormai».

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Virginia Villo Monteverdi

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