Gli inizi di Peter Weir

L’ultima onda (The Last Wave, Peter Weir, 1977)

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file_1_51977, Australia. L’ottimo volume/dossier Ozploitation – Guida al cinema di genere australiano, a cura di M. Cacioppo, M. Gomarasca e P. Gilli, ci permette di capire come l’industria cinematografica australiana dei primi anni ’70 fosse realmente povera e numericamente scarsa, soprattutto se messa a confronto con le cinematografie europee. Queste carenze davano modo ai cineasti di realizzare lavori dotati di «una tipicità volutamente localizzata, connotata dall’ampio sfruttamento di elementi della cultura australiana come lo slang…e lo sfruttamento di tutto ciò che l’Australia aveva da offrire». Era tuttavia un cinema fatto per il pubblico dell’isola-continente e raramente le pellicole venivano esportate in America e in giro per il mondo (si parla di 2 pellicole ogni 15). Una di queste – visto che ricevette anche dei finanziamenti dalla United Artist – è L’ultima onda di Peter Weir, regista nativo di Sydney, famoso al grande pubblico per i suoi (futuri) successi hollywoodiani come L’attimo fuggente o The Truman Show. Dopo l’uscita di Picnic ad Hanging Rock nel 1975, Weir prende consapevolezza dei suoi mezzi tecnici e dei suoi valori teorici e gira un film nel quale sono presenti tematiche quali il misticismo, il rispetto per i cicli della natura, la descrizione di una Australia non ancora slegata dal suo passato tribale e pregna di culture arcaiche.ultimaonda3

David Burton, un avvocato fiscalista interpretato con merito da Richard Chamberlain, si ritrova a difendere un gruppo di aborigeni accusati dell’omicidio di un loro compagno. Questo fatto sconvolgerà la vita di un borghese, padre di famiglia, che scavando nel suo passato e nei suoi sogni di ragazzo, si troverà a diventare una figura profetica, il testimone vivente delle profezie aborigene su di un’incombente apocalisse acquatica. La scelta di un avvocato come protagonista principale non è casuale bensì dimostra la volontà del regista (che è anche co-autore del soggetto) nel portare al centro della vicenda uno scontro tra le leggi del diritto e le leggi della natura, tra parole scritte in un libro e parole tramandate di generazione in generazione, tra razionalità ed irrazionalità.

Un’analisi superficiale di questa sinossi potrebbe far venire in mente uno dei tanti film catastrofici degli anni ’70; quello che invece spicca nel lavoro di Weir è il modo in cui gli eventi legati ad una natura distruttiva sono presentati agli occhi dello spettatore. La maestria in cui ci viene mostrata una grandinata devastante che cade su di una scuola, l’angoscia che si prova nel vedere una pioggia nera di acqua mista a petrolio venire giù dal cielo, la sorpresa e la paura di caduta di rane dal cielo e il riuscire ad incutere paura ed angoscia solamente con rumori, tuoni in uditi in lontananza, luci inconsuete nel cielo non sono altro che segnali che ci guidano verso un finale già scritto. Quel finale che pare un tributo in chiave messianica a François Truffaut e ai suoi 400 colpi, con la differenza che Antoine Doinel si spingeva sino al mare nella ricerca della libertà e della conoscenza mentre David Burton si ricongiunge alle acque come testimone panico della fine di un ciclo.

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Tomas Ticciati
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