“Ernani” ritorna al Verdi di Pisa in cappa e spada

PISA – Il terzo titolo del cartellone lirico 2019/2020 riporta, dopo un anno d’assenza, la musica di Giuseppe Verdi: il 13 dicembre entro le mura del Teatro di Pisa irrompe Ernani, il dramma che Francesco Maria Piave ha tratto dall’omonimo testo di Victor Hugo. Questa fosca storia, di banditi e sovrani, d’orgoglio e amore (in perfetto stile “Romanticismo rampante”) mancava da Pisa da ben quarantadue anni e curiosamente ritorna esattamente nel cinquantesimo anniversario del debutto di Placido Domingo alla Scala, che avvenne proprio nei panni di Ernani.

È proprio l’aura del primo Romanticismo il tasto su cui costantemente ribatte l’allestimento, sin dall’alzata del sipario: ogni cosa, dai costumi, alle luci, alle scene, grida fieramente 1844. Nota di pregio proprio i meravigliosi costumi e le scene di Francesco Zito, a cui va il gran merito – ex aequo con il cast vocale – di aver salvato una mediocre produzione. Dal piglio estremamente tradizionale (fin nel midollo, verrebbe da dire), l’allestimento curato da Zito gioca palesemente a rievocare le suggestioni di quello che poteva essere uno spettacolo ottocentesco (seppur con qualche influenza cinematografica); forse è mancato il coraggio di osare fino in fondo e proporre al pubblico un facsimile del teatro dell’epoca, con tanto di conchiglie delle luci. A proposito di queste ultime, molto efficaci nella loro semplicità le luci di Bruno Ciulli, perfettamente immerse nel particolare contesto dell’allestimento di Zito.
Diverso è il caso della regia di Pier Francesco Maestrini, decisamente fredda e poco presente. Si può apprezzare l’idea di uno stile recitativo stilizzato o essenziale, ma qui davvero è troppo essenziale: l’unico gesto che gli uomini compiono in scena è sguainare e rinfoderare la spada. Anche le scene colle masse, bellissime a colpo d’occhio, risultano troppo statiche: se si tratta di una scelta orientata nel senso di riprodurre una mise-en-scène del XIX secolo, l’obiettivo non è centrato. Alla regia si chiedeva uno sforzo maggiore: un titolo tanto infiammato, che rigurgita emotività in ogni pagina non può essere ridotto a una parata di bei costumi.

Photocredit: Imaginarium Creative Studio

Deludente la direzione di Matteo Beltrami, troppo concettuale, troppo aggraziata per un’opera di cappa e spada: Beltrami prende Ernani, lo disossa, lo macina e lo impiega come ripieno per dei delicatissimi ravioli al vapore con code di gamberi accompagnati da un’emulsione di barbabietola. Nelle opere giovanili, specialmente quelle degli anni di galera, lo stile di Verdi richiede energia, temperamento; il che non significa naturalmente un pensiero direttoriale greve, o peggio grezzo, piuttosto significa comprendere il senso delle dinamiche indicate dal compositore, individuare le raffinatezze nella gravità e, soprattutto, rendere il fuoco quando è richiesto.
L’Orchestra della Fondazione Teatro Coccia, in collaborazione con il Conservatorio “G. Cantelli”, non è parsa al massimo della forma, forse stanca per il recente viaggio; la compagine si è dimostrata slegata, molto poco coesa, incespicando spesso nella ritmica (soprattutto gli ottoni, tendenti a tirare indietro) e inizialmente anche nell’intonazione. Molto sottotono la sezione percussioni, che pure in opere come Ernani è fondamentale per creare il giusto colore e il giusto pathos.

Photocredit: Mario Finotti

Nettamente migliore il cast vocale, a cominciare dall’ottimo Coro Sinfonico di Milano “Giuseppe Verdi”, più che all’altezza di una partitura certamente non semplice. Di buon effetto anche i comprimari: il basso Emil Abdullaiev è uno Jago di indubbio interesse, mentre Albert Casals è un Don Riccardo di insolito spessore. Convincente la Giovanna di Marta Calcaterra, che merita di essere ascoltata in ruoli meno marginali.
Motore trainante dello spettacolo – nel libretto e nella realtà – il poker dei protagonisti: gruppo granitico e di eccellente forza espressiva, è su queste otto spalle che si è sorretto buona parte del peso dello spettacolo. C’è il timbro squillante di Migran Agadzhanyan, solido interprete a cui è capitata la patata bollente dell’ingrata parte – diciamocelo pure – di Ernani, ma che ha saputo rendere con il suo patetismo e i tuoi travagli; c’è l’ottimo soprano Alexandra Zabala, un’Elvira senz’altro affascinante e dalle vaste possibilità espressive (davvero interessanti le sue sfumature nel piano); c’è il timbro scuro e seducente del baritono Massimo Cavalletti, che ha saputo interpretare la complessa figura di Don Carlo, eternamente in bilico tra ragione e sentimento, desiderio e ambizione, passione e onore; c’è infine il monolitico basso Simon Orfila che qui dà voce all’«antico Silva», muovendosi con grazia nella dicotomica anima del personaggio (al pari della fiamma di Ulisse), di eccezionale potenza negli assiemi e nei concertati.

Alla fine questo Ernani verrà ricordato come un’occasione mancata: spettacolo gradevole e di certo ben più che dignitoso, ma poteva ambire un livello decisamente più alto. Risultato che si sarebbe potuto raggiungere con poco impegno in più: partendo da un cast di tale levatura (e in grado di sostenere questo furibondo tour de force) e da un allestimento visivamente impeccabile, bastava che anche regia e direzione facessero la loro parte. 

Photocredit: Mario Finotti

 

Photocredit copertina: Imaginarium Creative Studio

lfmusica@yahoo.com

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