L’Empio punito e il Teatro Verdi, applausi per il primo Don Giovanni

PISA – Quella dell’Empio punito di Alessandro Melani è una scommessa che punta in alto: inaugurare la stagione del Teatro Verdi di Pisa non solo con un titolo barocco, ma con un titolo di estrema rarità e – per giunta – proponendolo per due recite (invece che soltanto per una, come nella storia recente del Teatro). Il fatto che il pubblico della prima, solitamente tiepido e diffidente, abbia accolto la proposta del Teatro Verdi e del direttore artistico Stefano Vizioli con tanto entusiasmo definisce in modo inequivocabile l’esito della scommessa.

Un primo elemento di pregio, determinante per il felice esito della rappresentazione, è di certo il magnifico allestimento firmato da Mauro Tinti: essenziale nelle forme, eccessivo nelle luci e nei colori, occhieggiante al teatro elisabettiano ma con robuste pennellate rock, il tutto efficacemente sostenuto dal disegno luci di Fiammetta Baldiserri. Interessante l’idea dei costumi – sempre opera di Tinti – che creano diversi collegamenti temporali, a seconda dei legami tra i personaggi. A guidare il tutto la mano invisibile di Jacopo Spirei, uno dei nomi più interessanti del panorama internazionale: romano di nascita e cresciuto a Firenze, ha uno stile immediatamente riconoscibile, pungente, spesso nei suoi lavori si assiste a una compenetrazione tra contemporaneità e storicità e si può ben dire che l’Empio punito non faccia eccezione. La scena vuota è una tela sulla quale l’allievo di Graham Vick si muove con disinvoltura, evocando suggestioni fiabesche, tragiche, da teatro delle marionette (appropriato, se si pensa ai trascorsi di Acciaiuoli), comiche fino al grottesco, camaleontico quindi nell’adattarsi al continuo mutare di un libretto in cui si passano in rassegna tutte le emozioni umane. A Spirei va il gran merito di aver sottolineato proprio questo aspetto; l’opera del Sette-Ottocento ci ha abituati a confrontarci con titoli marcatamente tragici o comici (e i libretti si premurano di comunicarcelo già in partenza), l’opera barocca è invece una mescolanza di sentimenti, umori e colori, in continuo mutamento. La vita traslata sul palcoscenico.

L’empio punito era senza dubbio molto atteso sulle tavole del Verdi; il M° Carlo Ipata, per sua stessa ammissione, attendeva da lungo tempo di poter eseguire integralmente il capolavoro di Alessandro Melani. In buona sostanza, la rappresentazione di sabato 12 ottobre altro non è che la naturale maturazione del potpourri del 2015, in cui era stata eseguita una selezione di brani dall’Empio punito. L’attesa del M° Ipata e dello stesso pubblico è stata ampiamente ripagata. Senza mezzi termini, la realizzazione musicale è stata splendida, con l’orchestra Auser Musici in stato di grazia. Carlo Ipata è luminoso nella direzione e nell’idea; a lui spetta un compito non da poco: si tratta di due parti da novanta minuti l’una di musica ininterrotta, non è cosa facile fornire a orchestra e cantanti il supporto adeguato e i tempi giusti per affrontare al meglio una simile prova (ardua anche per il pubblico). A onor del vero sono stati apportati numerosi tagli alla partitura, tuttavia si tratta di operazioni indolori, che non intaccano l’opera e la rendono decisamente più fluida.
A proposito dei cantanti, è da segnalare che più di metà del cast è composto da giovani cantanti selezionati attraverso il bando “Accademia barocca”. A questo gruppo appartengono i tenori Carlos Negrín Lopez (Tidemo), di buon effetto anche dalla prospettiva attoriale, e Shaked Evron (Corimbo), decisamente meno efficace. Il basso Lorenzo Barbieri è un dignitoso Atrace, anche se poco preciso nelle numerose fioriture. Molto applaudito il sopranista Federico Fiorio, voce tersa e filigranata, riesce a dare al personaggio di Cloridoro un insolito spessore. All’interno di questo «potente gruppetto» si impone all’attenzione del pubblico la brava Benedetta Gaggioli (Proserpina), con la sua raffinata vocalità di soprano e l’ottima presenza nelle scene d’assieme, e il baritono Piersilvio De Santis, triplice interprete dei ruoli di Niceste, di un Demonio e di Caronte: carismatico, cattura immediatamente l’attenzione e all’occorrenza dotato di una buona vis comica.

Formidabile il gruppo dei “titolari”, cinque specialisti del repertorio barocco ben noti al pubblico, a cominciare dal basso Giorgio Celenza che qui veste i panni di un ottimo Bibi: prototipo del servo tanto ingegnoso quanto ingenuo, Bibi è caratterizzato con vivo gusto da Celenza, che porta sulle proprie spalle buona parte del peso comico dell’opera. Memorabile per espressività e capacità comunicativa l’Atamira del soprano Raffaella Milanesi (applaudita a scena aperta nell’aria Piangete, occhi, piangete e nel meraviglioso duetto Se d’amor la cruda sfinge), la sua interpretazione è stata di intensità tale da raggiungere corde dell’animo davvero profonde. Molto brava Roberta Invernizzi, qui nel ruolo bucolico di Ipomene: la freschezza e la duttilità del suo timbro la rendono un’interprete di eccezionale valore e versatile per il repertorio barocco. 
Una speciale menzione ad Alberto Allegrezza, ormai elemento caratteristico del barocco al Verdi; dopo i recenti successi del Girello di (Jacopo) Melani e del Dittico buffo napoletano, lo si ritrova nelle vesti della nutrice Delfa, personaggio entro il quale Allegrezza si muove con agio, risultando tanto bravo quanto irresistibile. Eccellente il controtenore Raffaele Pe, interprete del protagonista Acrimante: Pe, una delle voci di punta del barocco internazionale, si comporta da par suo ovvero come dominatore della scena; ad ogni ingresso tiene in pugno la platea, la incuriosisce, la sorprende, non le lascia un attimo di tregua. Un’interpretazione simile fa di certo onore al 350° anniversario dell’Empio punito, la prima pietra operistica del mito di Don Giovanni.

Photocredit: Imaginarium Creative Studio

lfmusica@yahoo.com

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