Esisterei senza la mia cultura? La dipendenza culturale come fondamento della personalità e della società

Non è un mistero che in principio la nostra vita sia condizionata e dipenda fortemente da fattori e agenti esterni a noi. Sappiamo che la crescita è una progressiva e necessaria entrata nella rete della società. E mentre noi ci inseriamo sempre di più nel sistema, vestendo diversi ruoli e seguendo le regole del gioco, non ci rendiamo conto che stiamo subendo un processo di socializzazione, non vediamo che sono i valori e la cultura a costruire e modellare la nostra personalità. Siamo animali sociali, viviamo in una dimensione collettiva ed elaboriamo un pensiero condiviso, un’ideologia.

Da Marx in poi il termine ideologia ha assunto una connotazione fortemente negativa: riconoscendo la necessità di costrutti sociali unici, spesso imposti ma altrettanto spesso funzionali al benessere collettivo, dobbiamo confrontarci anche con la limitazione della libertà che questi comportano. È qui che entra in gioco il concetto di dipendenza culturale o, ancora meglio, di fede culturale. Parliamo di un vero e proprio rapporto di subordinazione, di controllo, di continui condizionamenti e paletti che delimitano i confini delle nostre possibilità di scegliere e contemporaneamente ci definiscono come un “noi” contrapposto a un “loro”, e non è facile che il nostro sguardo verso il diverso sia attento, affascinato, sensibile, obiettivo. L’alterità non è una dimensione assoluta ma relazionale e i pregiudizi nascono sempre come rappresentazioni dell’altro, inteso come membro di un gruppo che entra in un altro cercando di essere accettato. È dunque una figura intellettualmente interessante, critica il dato per scontato del gruppo in cui entra, può creare una rottura, un’instabilità, porta un attacco ai dogmi e alle usanze “giuste”.

Il punto di vista secondo il quale il gruppo a cui si appartiene è il centro del mondo e il campione di misura a cui si fa riferimento per giudicare tutti gli altri, nel linguaggio tecnico va sotto il nome di etnocentrismo ed è un’espressione a livello più alto di quella che è la dipendenza etologica (dal greco ethos-costume più logos-studio) che caratterizza ogni individuo. Com’è vero che il singolo è profondamente influenzato dall’ambiente che lo circonda e dalla tradizione del suo gruppo di appartenenza, è anche vero che giudica ciò che gli è estraneo secondo costrutti sociali e schemi mentali che ha assimilato nel corso della sua crescita e grazie alle sue esperienze necessariamente limitate. E qui entra in gioco il concetto di dipendenza. Non giudichiamo in piena autonomia, e per conquistare la capacità di confrontarci con lo straniero dobbiamo affrontare un processo di parziale distacco dalla nostra solida base culturale costruita nel tempo e fondamentale per la formazione di un’identità, come uno stampino nel quale siamo stati versati e dal quale siamo usciti pronti a scegliere ciò che è giusto, a vivere correttamente.

Chiamiamo imprinting culturale l’acquisizione di abitudini e norme provenienti dal condizionamento e dall’educazione ricevuta. E come ogni imprinting anche questo è indelebile ed entra nel nostro subconscio come una necessità, come un dover essere, come un imperativo che comanda le nostre azioni indirizzandole verso il bene, il giusto, il socialmente utile. Un esempio paradigmatico è quello del credo religioso. La religione può degenerare in forme particolari di dipendenza come il fanatismo. La sua base è il controllo psicologico di ogni aspetto della vita dell’individuo, egli perde la capacità critica, il pensiero indipendente, la possibilità di decidere attivamente della propria vita. In molti casi la rigidità e la perentorietà dei discorsi, la definizione drastica e manichea di ciò che è giusto o meno, portano a veri e propri lavaggi del cervello che scaturiscono in condizioni di grave dipendenza dell’adepto dai dettami del suo credo e dalle persone fisiche che lo propugnano e lo rappresentano.

Il fanatismo è una forma di dipendenza religiosa che porta il fanatico ad un’esaltazione e ad una esasperazione del messaggio e della figura divini, tale da giustificare atteggiamenti aggressivi tanto verso se stesso quanto verso gli altri che non si riconoscono nella stessa credenza, e quindi deviano da quell’unica e giusta via. Chi ha sviluppato una simile dipendenza non è più in grado di metterne in dubbio l’autorità e i contenuti e si attiene strettamente alle regole e agli insegnamenti impartiti dalla divinità o dai suoi sacerdoti. C’è una sorta di rinuncia della propria autonomia di pensiero e di delega delle decisioni e delle scelte. Il credente è sollevato dalle sue responsabilità e dalla fatica di decidere affrontando la realtà attraverso complessi meccanismi di elaborazione. La religione garantisce un alleggerimento da questo processo al costoso prezzo della propria libertà e autonomia.

Ma cosa succede quando due o più culture entrano in contatto? Esistono forme di integrazione pacifica e di convivenza. D’altra parte spesso nascono pesanti conflitti che, secondo la teoria dei conflitti culturali, possono manifestarsi quando ricorrono tre diversi fenomeni: fenomeno di frontiera (gruppi culturalmente disomogenei che vivono in territori confinanti), fenomeno della colonizzazione (imposizione culturale di un popolo su un altro), fenomeno dell’immigrazione. Successivi approfondimenti ed estensioni della teoria hanno posto in luce come i fattori culturali possono generare non solo conflitti primari risultanti dall’attrito diretto tra differenti culture, ma anche conflitti secondari dovuti a un processo di differenziazione sociale dovuta alla discriminazione esercitata dalla società ospitante.

La molla scatenante è dunque il pregiudizio, determinato, come abbiamo visto, da una forma di dipendenza culturale e reso ancora più forte da fattori, quali ad esempio gli interessi materiali del gruppo in condizioni di concorrenza per l’acquisizione di risorse scarse o contrasti legati alla sfera della politica nel suo complesso (politiche pubbliche, agenda politica, affiliazione partitica). Tutto ciò in particolare a discapito delle minoranze, definite come gruppi subordinati all’interno di società complesse. Esse presentano aspetti fisici o culturali soggetti a valutazione negativa da parte dei gruppi dominanti e acquistano un’autocoscienza di gruppo, essendo legati a una medesima lingua e appartenenza a una storia, tradizione e destino condivisi. Nascono per migrazioni, occupazioni o colonialismo e possono in qualche misura trasmettere alle generazioni successive l’identità minoritaria.

Queste sono le principali vittime di razzismo e xenofobia, concetti che nell’età contemporanea vengono espressi dall’ideologia del differenzialismo, la quale considera le differenze culturali e soprattutto religiose come irriducibili e radicali. In questo modo la differenza tra i gruppi diventa un valore supremo e causa un rafforzamento dei confini tra le culture presenti in un medesimo territorio. Una soluzione ad oggi improponibile. Impossibile dimenticare che oltre alla dipendenza del singolo dalla propria cultura esiste una strettissima interdipendenza che tiene legate tra loro tutte le popolazioni così come tutti gli stati in rapporti di forza e subordinazione non solo politica ma soprattutto economica. È una rete dalla quale nessuno esce vincitore senza subire le eventuali conseguenze negative della propria inutile vittoria.

Laura Messina
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One comment to “Esisterei senza la mia cultura? La dipendenza culturale come fondamento della personalità e della società”
  1. In generale, si pensa alla dipendenza come quella condizione tipica del drogato, chi fa uso di sostanze dichiarate droghe. La maggior parte delle persone vivono decine di tipi diversi di dipendenza che non riconoscono. Il meccanismo della dipendenza porta all’estinzione della volonta’ e dell’azione. La gran parte delle persone pur dominate da questi fenomeni si rifiutano di accettare e probabilmente vedere la propria condizione. Chi e’ piu’ schiavo di un individuo libero a parole e non nei fatti?

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