Le Cinque Terre

Stare seduto su quella poltrona era diventato un rito irrinunciabile. Durante le vacanze passate in quella villa rosa, quasi nascosta dal verde, sedevo vicino alla finestra della mia camera per osservare il paesaggio e quel mare di un azzurro unico. Le Cinque Terre erano un rifugio, una zona sicura in cui ripararmi. Erano la mia ispirazione.

Mi perdevo nel camminare tra le vie di questo paesaggio “scabro ed essenziale” al tempo stesso. L’odore forte dei limoni di Monterosso che si sprigionava nelle ore più calde, mi spinse a scrivere la prima poesia di una delle raccolte più lette e ricordate tra le mie. Quel profumo, quel colore, ma anche solo il nome degli agrumi, mi rimandava alla memoria la condizione del poeta; la mia.

Riflettevo guardando i viottoli in pendenza; difficili da affrontare per i bambini che spesso, giocando, vedevano la loro palla ruzzolare tra le case e arrivare fino al mare. Ascoltavo il suono del vento, a volte violento; così arrabbiato da scuotere velocemente le barche attraccate al golfo; a volte talmente delicato da scompigliare leggermente la chioma di chi mi accompagnava. Meditavo osservando come gli scogli del Golfo dei Poeti ricadessero a picco sul mare. Erano così ruvidi e grigi che subito riuscivano a smuovermi qualcosa nell’intimo. Tristezza e malinconia nei confronti dell’animo umano erano le protagoniste.

Sulla battigia, sotto i miei piedi, scricchiolavano dei cocci aguzzi di bottiglia, rendendo la camminata difficoltosa come del resto è la vita. Ma ciò che di più attirava la mia attenzione erano proprio gli ossi di seppia. Quelle cartilagini bianche che galleggiavano sul mare e che poi venivano sbattute sulla spiaggia. Scarne e beccate dai gabbiani, rappresentano esattamente la mia poesia e la considerazione che la felicità e la natura hanno per il poeta, esiliato da loro come gli ossi di seppia dal mare.

Eugenio Montale racconta le Cinque Terre

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