Il cinema. Come la settima arte sia divenuta la musa perduta del XXI secolo

Cinema, la musa perduta

Roberto Longhi, insieme a Bernard Berenson il più famoso critico d’arte del Novecento in Italia, scrisse nel suo Breve ma veridica storia della pittura italiana una frase simbolica e capitale per comprendere l’importanza del medium; da qui parte la riflessione che vorrei proporre in questo articolo. Longhi, che nel corso degli anni ebbe modo di riportare in auge a livello critico Caravaggio, Piero della Francesca e la pittura barocca secentesca, in questo volume ebbe modo di dire che: «quanto, adunque vi ho detto, vi avrà ormai convinti che il soggetto, il fatto rappresentato, non ha alcun valore nell’arte figurativa». Una sentenza che lasciava alla sola pittura, e quindi al mezzo di rappresentazione, le chiavi per la comprensione e il giudizio critico di un’opera d’arte.

Un medesimo ragionamento sarebbe opportuno farlo anche per il cinema. Cambiando alcune parole, la frase del Longhi assumerebbe questa forma: «quanto, adunque vi ho detto, vi avrà ormai convinti che il soggetto, il fatto raccontato, non ha alcun valore nel cinema». Una frase che se messa in pratica (dai critici, dagli appassionati, ma soprattutto dai registi e dai produttori) spazzerebbe via in un sol istante il 90% del cinema contemporaneo, o meglio, del cinema contemporaneo che arriva in sala e che riscuote successo. Le stesse (multi)sale sarebbero deserte senza l’esistenza di quei prodotti che utilizzano il “regime narrativo forte” soltanto per far seguire ai personaggi dei percorsi già stabiliti, ma soprattutto già conosciuti dal pubblico. Prendendo i dati d’incasso stagionali italiani (1 agosto 2016 – 17 aprile 2017) vediamo che 7 dei 10 film presenti nella top ten sono film che hanno alle proprie spalle una storia già esistente, ma – cosa rilevante – già di ampio successo e diffusione nell’immaginario collettivo. La bella e la bestia, Alla ricerca di Dory, Animali fantastici (e dove trovarli), Cinquanta sfumature di nero, Inferno (di Ron Howard, non di Dario Argento!), Suicide Squad e Rogue one: a Star Wars Story sono tutti lavori che agiscono su un determinato spazio narrativo che non ammette – per colpa di un pubblico medio sempre più appiattito sui medesimi gusti, usi e costumi – cambi di rotta; sono film che lavorano per accumulo di universi espansi, di narrazioni non conclusive e utilizzano il mezzo cinematografico per l’aspetto videoludico e unicamente per gli incassi a nove zeri che, ultimamente, la globalizzazione permette di fare. Sia chiaro che non è mia intenzione dividere tra ciò che è intrattenimento e ciò che non lo è, ma quello che mi preme sottolineare è come il cinema sia sempre meno presente non solo nei film che hanno maggiore rilevanza commerciale e che quindi influiscono maggiormente nell’immaginario comune dei giovani, ma è assente anche nei discorsi, nella vulgata comune, nell’immaginario collettivo. La narrazione ha preso il posto del cinema. E tutto ciò credo sia irreversibile.


Nei film precedentemente citati (solo per comodità di contingenze temporali), «il fatto rappresentato e raccontato» di cui sopra è talmente totalizzante e totalitario che qualsiasi cambio di registro venga attuato viene recepito dal pubblico come un tradimento e questo tradimento riesce, grazie ai social e al loro utilizzo compulsivo (provate a vedere i commenti sotto le pagine ufficiali di film e poi ne riparliamo), ad uccidere la fortuna di un film. Se guardiamo ai decenni precedenti, e ci posizioniamo al 1977, ci possiamo accorgere che un film dall’alto impatto commerciale come Incontri ravvicinati del terzo tipo contenesse al proprio interno stimoli, situazioni, illuminazioni e personaggi (Truffaut) che rimandassero al mondo del cinema senza bisogno di spiegazioni alcune. Spielberg in quel caso – come ai giorni d’oggi il Denis Villeneuve visto in Arrival – aveva compreso che la storia del contatto tra alieni e umani poteva essere vista come un’enorme affabulazione di massa, un’epifania di luci, suoni e colori, in pratica il cinema stesso.


Se Longhi sosteneva che nell’arte figurativa, ripeto figurativa, il soggetto non ha alcun valore e l’unica cosa importante fosse la pittura, nel cinema l’unica cosa che rilevante dovrebbe essere il cinema stesso. Il cinema come arte, oltre ad essere una scintilla che scatta e vive nella testa di un regista, di un’artista, è raggiungibile tramite la sapiente unione di recitazione, montaggio, fotografia, sceneggiatura, movimenti di macchina, musica, costumi e via dicendo. Il cinema dovrebbe essere ciò a cui un regista dovrebbe aspirare e allo stesso tempo attingere e non soltanto un mezzo per raccontare storie e reiterare su altra “superficie” quello che già viene raccontato nelle pagine dei fumetti, nelle puntate delle serie tv o negli schemi dei videogiochi; ma se pensate che Michael Bay ha da poco confermato che ci sono 14 storie dei Transformers in fase di sviluppo per il futuro prossimo, converrete con me che per i vari Denis Villeneuve, Nicolas Winding Refn, Jeff Nichols, Jennifer Kent, Jim Mickle e David Robert Mitchell lo sforzo per trovare, ammaestrare e diffondere questa musa dovrà essere infinitamente maggiore.

Tomas Ticciati
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