Che bella atmosfera, Woody!

Magic in the moonlight (Magic In The Moonlight, Woody Allen, 2014)

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Può un film creare solo un’atmosfera? Anche se bella e perfetta? Magic In The Moonlight ci riesce. Nell’ultimo film di Woody Allen i mezzi tecnici sono usati nel migliore dei modi. Le luci, insieme alla fotografia, sono sicuramente fra i meglio impiegati, e il grande Darius Khondji già direttore di fotografia per Midnight in Paris – è la persona che più di ogni altro rende “magic” il film. Le immagini allietano lo spettatore, i luoghi hanno un’allure speciale, come la protagonista, e questo è appagante per il pubblico perché il cinema è soprattutto arte visiva. Gli attori, Colin Firth, Emma Stone, Marcia Gay Harden, Hamish Linklater e gli altri sono giusti e ben calati nel loro ruolo, credibili e alla fine “amabili”.

La vicenda vede un famoso illusionista dalla doppia faccia lanciarsi, su richiesta di un amico, in un’indagine volta a smascherare gli intrighi di una affascinante quanto ambigua medium, sospettata di voler raggirare, con le sue presunte doti, una ricca famiglia americana in vacanza sulla costa francese. Stanley Crawford – questo il nome del prestigiatore – è un altezzoso gentiluomo inglese, la cui presunzione dovrà fare i conti con un’irresistibile attrazione nei confronti della giovane Sophie Baker.

La storia è ambientata alla fine degli anni venti, periodo anche questo in qualche modo “magico”. Sono gli anni in cui c’è la sensazione diffusa che tutto sia possibile. La società vuole divertirsi (per lasciarsi definitivamente alla spalle la guerra e i suoi disastri), sono gli anni di Coco Chanel, dell’avvento della moda, di Rodolfo Valentino, dei giovani e del mito della gioventù. Una gioventù che è passata alla storia come bella, affascinante, insolita, piena di vita. Questa è l’immagine di quegli anni che ci è arrivata dalle riviste, dalla letteratura, dal cinema. E sullo schermo questo clima è ricreato molto bene.

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Costumi, trucco e scenografia sono ineccepibili. I costumi di Sonia Grande (6 candidature al Goya finora, di cui 1 vinto con La niña dei tuoi sogni) restituiscono il clima di quegli anni con la leggerezza e il fascino che li contraddistinguono. Ottime poi le musiche: Woody Allen, d’altronde, è un grandissimo appassionato di musica jazz e la colonna sonora del film diventerà probabilmente un pezzo da collezione per gli amanti del genere: brani non comuni, versioni particolari scelte con maestria.

Ma può bastare tutto questo per fare un buon film?

La sceneggiatura è molto più che debole: è prevedibile e banale. Appena la storia entra nel vivo, tutto diventa ovvio e scontato. Nessun imprevisto, nessun guizzo o testacoda sorprendente. I dialoghi risultano piatti anche se paragonati a quelli di una qualunque serie televisiva, figuriamoci se accostati ai tanto cari dialoghi dei primi film di Woody Allen.

Certo, Woody Allen negli ultimi film ha preso le distanze dai suoi “classici”. Ma, anche se con alti e bassi, in essi era sempre presente un “tocco” particolare, un segno del maestro. Qui, quel segno, lo attendi dall’inizio alla fine, da quando inizi a prevedere esattamente ciò che accadrà nella scena successiva, nella convinzione che ad un certo punto sbaglierai, perché lì interverrà il grande maestro.

Ma non è così.

Il finale, poi, è peggiore di quanto si possa prevedere.

Ci dispiace, ma, proprio perché ti abbiamo tanto amato, Woody Allen, una bella e perfetta atmosfera non può bastare a fare un buon film.

Maf

Tomas Ticciati
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