Metti un giorno a casa Graziani. Anna, Ivan, i luoghi e le canzoni

Premessa.

Siamo stati a casa di Anna Bischi Graziani, a Novafeltria, lo scorso 4 gennaio, tre giorni dopo il ventesimo anniversario della scomparsa di Ivan. Il Premio Pigro era stato fissato al 27 gennaio e la nostra intervista al 21, in modo da anticiparlo e presentarlo. Purtroppo, tra il sisma e il maltempo, la gente di Teramo e dell’Abruzzo intero (senza dimenticare tutto il Centro Italia) ha vissuto momenti drammatici. Appresa la notizia del sacrosanto rinvio del Pigro – e d’accordo con Anna –, non ce la siamo sentita di pubblicare subito l’intervista. Ma fortunatamente le cose in Abruzzo stanno pian piano tornando alla normalità, e abbiamo una nuova data del Premio Pigro: il 27 maggio in piazza Martiri della Libertà. A Teramo, s’intende.

L’intervista invece è perfetta per il nostro speciale sul mese dedicato alla donna.
Buona lettura.

Il ghiaccio è quasi scomparso dai bordi della strada della campagna romagnola, al confine con le Marche, in direzione Novafeltria. Ma fa ancora freddo.
Il nostro appuntamento con Anna Bischi Graziani è alle 15, ma noi arriviamo con buon anticipo per conoscere il luogo a cui lei e suo marito Ivan hanno scelto di attribuire il significato di casa.

Novafeltria è in provincia di Rimini dal 2009, quando un referendum la “spostò” dalle Marche all’Emilia-Romagna. Incastonata nelle colline romagnole, saluta ammirata il forte di San Leo, che a sua volta la “protegge” dall’alto dei suoi 583 metri. Dietro San Leo c’è San Marino col suo Monte Titano, prima della Romagna tipicamente da cartolina, quella che d’estate bacia l’Adriatico in un tripudio di ombrelloni e piadine. Novafeltria è anche il luogo dove Ivan, oggi, riposa. 
Di là dal confine, a un’oretta di macchina, c’è Urbino, tanto cara e preziosa nell’arte e nella musica di Ivan Graziani. Ma anche di Anna, che proprio lì, nel 1968, ha incontrato Ivan.

Sono le 15, è ora di raggiungere casa Graziani, nella parte alta del paese.

Anna ci fa accomodare, è gentile e sorridente. Varcare la soglia di quella casa (atto che compiamo con discrezione, come per paura di svegliare qualcuno) fa viaggiare con la mente. Di lì è passato un pezzo di storia della musica italiana. Immaginiamo gli incontri, le serate, gli amici. Ivan che accorda pigramente una chitarra alla luce naturale che filtra dalle vetrate del tinello mentre accarezza il gatto. E la musica, ovviamente. Si parte.

 

Vent’anni senza Ivan. Partiamo proprio delle iniziative per ricordarlo, tra il disco uscito il 27 gennaio, Rock e ballate per quattro stagioni  e il Premio Pigro.
«Oltre a due cd con il meglio del repertorio di Ivan, c’è Per sempre Ivan, un disco mai pubblicizzato come si deve, molto bello, con tante collaborazioni, uscito postumo grazie, fra gli altri a Renato Zero e Antonello Venditti. Tornerà in commercio anche il vinile de I Lupi, una rarità, di quelli che in genere si trovano nei mercatini. Mentre sul Premio Pigro, in piena fase organizzativa, posso dire che sarà dedicato al cavalier Di Sante, storico presidente, che ha creduto nell’evento fin dall’inizio e che purtroppo non è più tra noi».

Il Premio Pigro è anche promozione di giovani talenti. Ce ne sono di interessanti?
«Dopo i due anni di stop, saranno organizzate tre tappe: nord, centro e sud Italia. Durante questi appuntamenti selezioniamo giovani e poi andranno in scena le semifinali a Teramo, con la finale nella serata del Pigro. Non è semplice trovare cose particolari, ogni tanto riusciamo a dar loro visibilità, ma non sempre. Quest’anno non ci sarà un premio in soldi, ma ho preso contatti con uno studio di Santa Fè in California, se non ci saranno intoppi burocratici, il vincitore starà una settimana là tutto spesato con la produzione di Jono Manson e i musicisti americani. Una bella occasione. Poi lui manderà artisti americani al Pigro, che faranno la traduzione di alcuni brani di Ivan. Da lì sarebbe bello fare un disco di Ivan tradotto in inglese».

Parliamo dell’associazione in sostegno dei bimbi Saharawi, che ti vede impegnata da anni.
«L’associazione si chiama Rio de Oro onlus di Montefeltro. Quello Saharawi è un popolo nomade, vive nei campi profughi algerini. Non c’è sanità, non ci sono vestiti, la vita è difficile. I bambini soprattutto hanno tantissimi problemi. Noi infatti portiamo in Italia quelli con i problemi più gravi e stanno qua quei due-tre mesi che servono: l’ultimo, Aziz, è un bambino di un’intelligenza incredibile. È stato qui da luglio a prima di Natale. Si è operato al piede, ora sta bene ed è tornato a casa. Quindi al Pigro ci sarà una raccolta sia per le scuole di Teramo che per i bimbi Saharawi. Mi piace “sfruttare” mio marito per queste cose».

Graziani

Tornando a Ivan e alla sua arte, come si sarebbe comportato con Facebook, i nuovi media e la libertà espressiva che viene concessa? Lui era un po’ un anarchico musicalmente parlando.
«Lui ha sempre fatto le cose di testa sua. Il suo repertorio è ben riconoscibile. La rovina delle case discografiche ha penalizzato anche gli altri artisti dello stesso periodo. I direttori artistici erano un punto fermo e ti potevi confrontare. Ora invece ci sono amministratori. Quando è morto Melis, di Rca, è arrivato un grande manager e ricordo una scena in particolare. Eravamo in sala di registrazione, una sera, stavano mixando e lui affacciandosi fece: “Ah bene bene, adesso qui bisogna lavorare, basta fare musica”. Il gelo. Ecco, questo è il tracollo della discografia italiana. Un manager così pensa al ritorno economico e basta. La costruzione della musica non è più al centro. Io ricordo quando gli artisti venivano aiutati, coccolati, persino nel look e nel vestire. Tra loro ricordo Lilli Greco, scomparso anche lui purtroppo. Insomma, c’era un terreno su cui lavorare. Ora è più difficile. È vero che ti danno subito la popolarità: concorrono altri fattori, come la presenza, la scioltezza nel parlare, il tuo fascino. Ed è raro che portino pezzi inediti, purtroppo. Se fossero pensati diversamente, i talent sarebbero una grande occasione per i giovani. Altra cosa le radio libere, che libere non sono. È più difficile che le radio propongano novità.
Ivan si sarebbe divertito, o avrebbe prodotto altri artisti».

Il pubblico di Ivan. Com’era, com’è oggi e com’è cambiato nel tempo?
«Ivan è snobbato da una certa classe, la pseudo “cultura chic”. È un artista più di strada, più vicino alla gente normale. Prendeva spunto dalle storie della provincia e della quotidianità. Era più interessato e affascinato a uno che si è dovuto costruire una vita con mille sacrifici piuttosto che a uno che si è ritrovato la pappa pronta. Il pubblico di oggi, beh, credo che molti giovani si stiano avvicinando a Ivan. Ho avuto questo sentore qualche anno fa a Casa Sanremo, durante il Festival, quando era ospite Filippo. Lui e Tomaso hanno fatto il repertorio del padre e mi è capitato di vedere dei ragazzi immobili ad ascoltare e sentivo dire: “Caspita, però, ma chi sono questi? Come scrivono…”. Vuol dire che lo hanno considerato attuale, almeno credo (e spero)».

Ma il linguaggio di Ivan che ha affascinato quei giovani ha margine di sviluppo oggi, anche presso altri autori già affermati?
«Ivan in tempi non sospetti ha cantato di tutto: la pazzia ne La pazza sul fiume, la droga in Dada, rapporti sbagliati tra insegnanti e alunni in Signora bionda dei ciliegi, la guerra in Oriente con La sposa bambina. C’è di tutto nel mondo di Ivan e mi sento di dire che ha precorso i tempi. Forse non è stato capito da quel pubblico in quel momento».

Graziani

Ivan e Anna

 

Vi siete conosciuti nel 1968 a Urbino, poi la vita a Milano, cuore della discografia (almeno dell’epoca). Perché siete tornati qui in provincia?
«Erano tempi difficili, tante tensioni. Ricordo un giorno che appresi del rapimento della figlia dell’edicolante sotto casa. È stata una decisione necessaria, anche per i nostri figli. La provincia penalizza, ma fino a un certo punto, soprattutto oggi che ci si può spostare più facilmente e in meno tempo».

Quali sono le tue tre canzoni preferite del repertorio di Ivan?
«Grande mondo, Il mio cerchio azzurro e… l’altra mettila tu».

Signora bionda dei ciliegi?
«Sì, ma a dire il vero sono più legata a quelle di nicchia come Il campo della fiera e Ballata per quattro stagioni. Se vai a prendere il testo scopri che è una cosa meravigliosa. Penso sia difficile scrivere delle cose così belle. La parte che parla dell’inverno è incredibile, è come essere lì, ci entri dentro».

Hai mai collaborato ai testi?
«Li abbiamo sempre scritti insieme. Ho dato l’esame della Siae, ma non ho mai firmato, anche se Ivan avrebbe voluto».

Parliamo dei luoghi. Fondamentali nelle canzoni di Ivan. Come, fra gli altri, Urbino, Alghero e Teramo.
«C’è tanto Abruzzo, lo trovi dappertutto. Ma anche Alghero, basti pensare al mare. Poi ci metto Marotta, paesino nelle Marche dove andavamo al mare. Poi casa nostra qui a Novafeltria, dove ha scritto tantissimo. Milano, dove stavamo prima. E anche la Sicilia: pensa, le case discografiche erano così ricche che ti mandavano in vacanza per ispirarti. Così accadde per Siracusa».

E ora la genesi di alcune canzoni. Partiamo da Lugano addio.
«Era il periodo in cui abitavamo a Milano, ma passavamo molto tempo da alcuni nostri amici che stavano a Lugano, come Hunka Munka, tastierista dell’Anomina Sound. Eravamo molto amici. Succedeva questo: quando avevamo pochi soldi noi, andavamo a Lugano da loro e quando avevano pochi soldi loro, venivano a Milano da noi. Lugano era come entrata nel nostro dna. Questo fatto di passare il confine, quando eri fermato dai gendarmi che chiedevano i documenti. Una volta avevamo Tomaso piccolino in macchina. Non era nel passaporto e ce l’hanno preso e portato dentro la guardiola dei gendarmi che gli chiedevano: “Di chi sei figlio?”. E lui poverino piangeva, poi han capito che era figlio nostro. E a volte magari cercavamo una frontiera meno in vista per poter “contrabbandare” della cioccolata…».

Agnese. È fantasia totale o c’è uno spunto geografico?
«Agnese fu scritta a Milano in via Denti 2. Spunto geografico? Magari la nebbia (sorride, ndr)».

Firenze?
«Fu scritta a Roncobilaccio».

Fantasia, storia vera o entrambe?
«No, la storia è vera. Fu ispirato da un amico, uno studente di Urbino. Ivan aveva fatto come me lì gli studi artistici e spesso andavamo a Firenze per visitare i musei. Adorava Firenze, i riferimenti sono tanti. La storia quindi nasce a Urbino ma si sviluppa tutta a Firenze».

Signora bionda dei ciliegi?
«Lì c’è tutta Teramo. La villa esiste, è in fondo al corso principale di Teramo. Sono ricordi di gioventù, il testo è molto chiaro».

Pigro?
«Parla di suo fratello Sergio. La pigrizia di cui si parla nel testo non va considerata tanto in senso fisico, quanto intellettuale. Non solo. A ben vedere, la pigrizia è anche chiusura mentale».

«La sua idea di musica corrisponde alla sua idea di pittura», si dice nel libro di Lorenzo Arabia. Cerchiamo di capire meglio questo suo mondo.
«C’è un aneddoto curioso che dice molto. Mi ricordo che andammo insieme a Parigi a visitare il Louvre. Io entrai a vedere tutto, lui rimase fuori, seduto da una parte con un blocchetto per gli schizzi e disegnava quelli che… entravano al Louvre!. È un album che ancora possiedo. Poi è entrato, eh. Ma poco».

E gli occhiali rossi?
«Li avevamo comprati a Aix-en-Provence. Erano dei Lafont. Ero abbastanza imbarazzata, anche perché non ne aveva bisogno, li portava o senza lenti o con dei semplici vetri».

Diventarono poi un tratto distintivo, un simbolo.
«Sì, amava fare queste cose. Aveva persino creato e disegnato una linea d’abbigliamento, Gentiluomo di campagna, tutti abiti da casa. Amava portare la vestaglia di velluto tipicamente dannunziana e fumare la pipa. Si divertiva molto».

Francesco Bondielli
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