Anarchismo ieri e oggi

L’anarchismo si definisce abbastanza facilmente come quella corrente rivoluzionaria che nasce nell’Ottocento in Europa e che si caratterizza per la sua negazione dello Stato, il suo rifiuto di partecipare alle elezioni e di organizzarsi in forma verticistica o di partito (per un periodo invece si fece sindacalista).

Noi oggi abbiamo una percezione abbastanza ridotta della sua importanza, apparendo adesso come una corrente presente, ma marginale. Non fu però così alle origini, quando fu l’anarchismo in molti paesi la prima espressione delle nuove classi lavoratrici, impegnando il marxismo in una dura polemica che segnò le differenze e portò alla dissoluzione della Prima Internazionale. Sul finire dell’Ottocento anarchici e socialisti, questi ultimi sostenitori della azione parlamentare, della “politica organizzata”, presero strade diverse in tutti i paesi, riuscendo però, anche gli anarchici, a esprimere figure di livello nazionale amate e riconosciute. In Italia, tra Pietro Gori e Filippo Turati fu uno scontro tra giganti, rispettivamente dell’anarchismo e del riformismo. Ancora più tardi, anche quando il socialismo si era consolidato e radicato, l’anarchismo riusciva a riempire i vuoti e le incertezze del socialismo, e si mantenne un ruolo in prima linea nei moti e nelle proteste sociali. Dopo la prima guerra mondiale durante il biennio rosso fu Errico Malatesta a guadagnarsi l’appellativo di “Lenin” italiano anche per la sua politica di unità di azione tra anarchici e socialisti massimalisti.

“Il quarto stato” (Giuseppe Pellizza da Volpedo, 1901)

 

Il clima politico e sociale di alcune città nei suoi ceti subalterni verrà influenzato in profondità dall’anarchismo, come sappiamo, per Pisa per esempio, dal libro di Athos Bigongiali Una città proletaria, romanzo basato però su robuste ricerche documentarie, o dal recente libro di Massimiliano Bacchiet sul quartiere di Riglione.

L’anarchismo non è però solo una corrente politica in senso tradizionale ma tende a generare un suo proprio mondo. Lo stereotipo dell’anarchico attentatore e bombarolo nasconde il fatto che a fronte di una limitata quanto clamorosa attività in quel settore il mondo dell’anarchismo genera piuttosto speranza e culture, relazioni e pratiche sociali, pedagogia, diffusi conflitti sociali ed associazionismo proletario, dentro gli Stati ma anche oltre i confini degli Stati. Non si capiscono ad esempio i Sacco e Vanzetti se non come espressione e prodotto di questo mondo.

Così l’anarchismo ha una ragione storica indubbia. Ma non solo quella. Esiste anche una ragione di teoria politica che ci fa dire che l’anarchismo è una “famiglia” di pensiero politico ricca ancora di valore critico. Nella sua sostanza l’anarchismo è la corrente più critica verso lo Stato e più in generale verso il potere in quanto tale, ancor più del liberalismo. Dalla storia dell’Ottocento e del Novecento sappiamo quanto si è rivelato frequente il ricorso alla trasformazione sociale attraverso lo Stato e il potere pubblico, e quasi si è tentati di pensare che senza lo strumento “dall’alto” la trasformazione non è realmente possibile. In realtà questa trasformazione dall’alto comporta una enorme serie di problemi che ricadono talvolta sulla qualità della trasformazione ma anche sulla natura della struttura che opera la trasformazione stessa e che è a rischio costante di verticismo, di autoritarismo, di riproposizione di nuove oligarchie. L’anarchismo, con la sua critica radicale al potere, a quello che è stato chiamato anche “il volto demoniaco” del potere stesso, può fungere da salutare antidoto a tutte queste sopravvalutazioni. Abolendo l’orizzonte positivo di quello che è chiamato Stato, inevitabilmente si guarda al primato della società e delle trasformazioni che essa stessa, autorganizzandosi, può produrre.

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