Ritratti: Alfred Hitchcock

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Una donna fa la doccia nel bagno di un motel. Sorride e si rilassa sotto il getto d’acqua calda, ha avuto una giornata difficile. Qualcuno apre la porta ed entra ma lei non si accorge di niente. Continua a lavarsi, si strofina braccia e gambe e intanto ride sollevata. Lo sconosciuto si avvicina in silenzio, poi scosta la tendina della doccia. Ha un coltello, la donna si porta le mani al volto ed urla ma è tutto inutile. I fendenti arrivano a raffica, sul petto, sulla schiena, il sangue scorre nella vasca. L’assassino scappa e lascia la sua vittima ad agonizzare. Prima di morire sulle piastrelle fredde del pavimento, la donna si aggrappa alla tendina della doccia e la strappa.

Questa scena è una delle più famose nella storia del cinema ed ha avuto una grande influenza sull’immaginario collettivo dei cinefili di tutto il mondo. Don DeLillo, ad esempio, la racconta all’inizio del suo romanzo Punto Omega. Il film da cui è tratta è Psycho di Alfred Hitchcock.

Hitchcock, ecco un uomo che vale la pena di ritrarre.

Partiamo da un libro-intervista, Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut. Truffaut, come è noto, è stato uno dei critici di punta dei Cahiers du Cinéma e uno dei principali esponenti della Nouvelle vague. Quando scrive questo libro è già un regista affermato, ha appena presentato Jules e Jim a New York. Cosa spinge un giovane avanguardista che ha da poco abbandonato la critica a intervistare un regista famoso come Hitch? La risposta è semplice: l’amore per il cinema. Al tempo in cui Truffaut scrive il suo libro, Alfred Hitchcock è considerato poco più che un mestierante. La critica americana denigrava i suoi film e lo dipingeva come un uomo cinico e affamato di denaro. Oggi facciamo molta fatica ad accettare questa idea. “Hitchcock” è uno dei nomi che leggiamo più di frequente nei libri che si occupano di analisi del film e tecnica cinematografica. Espressioni come “un film alla Hitchcock” sono di uso comune e non hanno certo accezione negativa. Eppure l’ascesa del regista inglese allo status di “autore” è tardiva e la dobbiamo proprio a Truffaut ed al suo libro. Il cinema secondo Hitchcock poteva essere scritto solo da un altro regista, perché richiede una conoscenza specifica delle difficoltà e dei problemi relativi alla realizzazione di un film. E’ anche un libro che poteva essere scritto solo da un critico, perché sottende un tentativo di persuasione nei confronti del lettore. Insomma, è un libro che poteva essere scritto solo da Truffaut.

Ripercorriamo insieme alcuni momenti della filmografia di Hitchcock e cerchiamo di capirne l’importanza. La nostra bussola, la nostra stella del nord, sarà proprio il libro di Truffaut.

Alfred Hitchcock inizia la sua carriera ai tempi del cinema muto, questo è un dato che viene spesso trascurato. Tuttavia, non si potrebbe capire il ruolo del regista inglese all’interno del cinema narrativo classico se non si tenesse bene in mente questo fatto. The Lodger: A story of the London Fog (Il pensionante, Gran Bretagna 1926) è il primo film autenticamente hitchcockiano.

Analizziamo una scena. Il furgone di un giornale è ripreso da dietro. Attraversa Londra perché deve consegnare i quotidiani agli strilloni. I vetri posteriori sono ovali, si possono distinguere le teste dei due uomini seduti davanti. Il furgone ondeggia a causa delle curve, l’impressione globale è quella di guardare due pupille che si muovono nelle orbite. Quello che a noi interessa di questa sequenza è l’atteggiamento che sottende. Creare questa inquadratura significa cercare di rendere visibile un idea: l’occhio della stampa è sempre attento e sbircia i londinesi in cerca di uno scoop. La scena non è accompagnata da nessuna didascalia, non ce n’è bisogno. Il messaggio è chiaro e questo, in un film muto, è garanzia di qualità. Immagini e non parole, cinema allo stato puro. Hitchcock, come molti registi del suo tempo, pensava che Murnau fosse il grande maestro del “muto”. Con il film L’ultima risata Murnau aveva fatto cinema allo stato puro. Secondo Hitchcock i film cattivi erano quelli che avevano bisogno di essere spiegati con molte didascalie. Nessuno meglio di lui poteva saperlo. Uno dei primi lavori del regista inglese è stato proprio quello di scrivere didascalie per i film muti. Nel corso della sua intervista a Truffaut, Hitchcock racconta come si potesse cambiare il senso di una pellicola riscrivendone le didascalie. Facciamo un esempio. Un regista gira un film drammatico. Alla fine delle riprese, in fase di montaggio, si accorge che la recitazione è pessima. Gli attori sono comici e non trasmettono le emozioni che lui aveva in mente. Allora si aggiungono le didascalie, ma non quelle originali. Si riscrivono in chiave comica e si trasforma il film in una commedia. Questo procedimento, secondo Hitchcock, era una vera e propria presa in giro nei confronti dello spettatore.

Torniamo a The Lodger e analizziamone una scena. Siamo in un salotto, alcune persone parlano. A un certo punto il lampadario sul soffitto oscilla. La telecamera lo inquadra. Il soffitto diventa trasparente e si scorge una persona, al piano di sopra, che cammina inquieta. Ecco cinema allo stato puro. L’inquietudine di qualcuno viene mostrata e non raccontata. Per realizzare questa scena Hitchcock fece installare un soffitto di vetro molto resistente.

Il periodo “muto” di Hitchcock, dicevamo all’inizio, ci aiuta a capire il ruolo del regista inglese nel cinema narrativo classico. Per cinema narrativo classico, come è noto, si intende il cinema americano, dalla nascita del sonoro al 1960 circa. I film di questo periodo erano lineari e dovevano essere molto chiari al pubblico che li andava a vedere. Per questo motivo gli effetti visivi furono molto limitati. Uno dei pochi registi che è riuscito a girare film narrativi utilizzando effetti ricercati è proprio Hitchcock. E questo perchè s’era fatto le ossa ai tempi del muto. Nessuno meglio di lui è riuscito a coniugare chiarezza narrativa e ricerca visiva.

The Ring (Vinci per me!, Gran Bretagna 1927) è un film che conferma quanto abbiamo visto fino ad ora. La sequenza iniziale è molto significativa, perchè è piena di trovate. Siamo in un luna-park. Un giostraio urla ai presenti. L’inquadratura diventa un particolare dei suoi denti, poi sfuma su dei bersagli che ricordano i denti dell’urlatore. Ecco un’analogia interessante. Tutto il film è pieno di invenzioni visive di questo tipo. Facciamo ancora un esempio. Un uomo, che noi sappiamo essere un pugile, sta discutendo con delle persone. Siamo in una casa dove si sta svolgendo una festa. A un certo punto il pugile si distrae e nota sua moglie che flirta con un altro. Quando il nostro uomo torna a parlare con i suoi interlocutori sullo schermo è presente un’altra immagine in sovrapposizione, quella della moglie fedifraga. Hitchcock ci mostra i pensieri del pugile. Ancora una volta cinema allo stato puro.

Arrivati a questo punto possiamo stabilire che Hitchcock è un grande creatore d’immagini. Adesso dobbiamo parlare della seconda dote del regista inglese, quella di creare la suspence. Per farlo analizzeremo Sabotage! (Sabotaggio!, Gran Bretagna 1936).

Il film si apre con alcuni uomini chini su di un macchinario difettoso. Uno di loro si accorge che c’è della sabbia all’interno degli ingranaggi. Mostra la sua scoperta ai colleghi e li avverte che c’è stato un sabotaggio. Qualcuno si chiede chi possa essere stato. L’inquadratura successiva ci mostra un volto, evidentemente quello del colpevole. Perchè mostrarci il colpevole all’inizio del film? Non sarebbe più emozionante scoprirlo mano a mano durante il corso della narrazione? Secondo Hitchcock, no. Una delle ossessioni del regista inglese è quella del controllo. Si dice che fosse un maniaco della precisione e che tenesse sempre sulla corda i suoi collaboratori per ottenere il massimo da loro. Questa nevrosi ha caratterizzato anche il rapporto di Hitchcock con i suoi spettatori. L’idea che una persona avrebbe potuto distrarsi guardando un suo film gli era insopportabile. Cercare di indovinare l’assassino è un buon modo per conquistarsi l’attenzione di uno spettatore, ma non il migliore. Hitchcock crede che il metodo migliore sia quello di inserire gli spettatori direttamente nell’azione e per farlo gli dà il maggior numero di informazioni possibile. Cerchiamo di spiegare meglio questo concetto con l’esempio che usa Truffaut nell’introduzione al suo libro su Hitch.

Un uomo ferma un taxi. Sale a bordo e chiede al tassista di accompagnarlo alla stazione. Ecco una scena media, priva di emozioni, piatta. Se Hitchcock dovesse girare una scena simile, l’uomo, prima di prendere il taxi, guarderebbe l’orologio e direbbe:

“Maledizione, non riuscirò mai a prendere il treno!”

Il senso della scena cambia. Adesso, ogni incrocio e ogni semaforo rosso aumentano la tensione. Lo spettatore, in questo caso, siede al fianco dell’uomo nel taxi. Hitchcock ci fornisce l’informazione necessaria a creare la suspence: l’uomo rischia di perdere il treno.

Tornando a Sabotage!, possiamo adesso affermare che la tensione si crea proprio perchè lo spettatore conosce il colpevole. Ogni volta che il volto del sabotatore apparirà sullo schermo noi saremo tesi e guarderemo la scena con occhi attenti. Ancora una scena tratta da Sabotage!

Un bambino siede sul pullman. Gioca con un cagnolino e ogni tanto dà un’occhiata agli orologi dei negozi che occasionalmente sfilano davanti ai finestrini. Questa scena sarebbe piatta se non fossimo in un film di Hitchcock. Il bambino guarda gli orologi perchè deve consegnare un pacchetto. Il pacchetto viene inquadrato di continuo e, ciliegina sulla torta, dentro c’è una bomba. Tutte queste informazioni vengono date allo spettatore prima che il bambino salga sul pullman. Ecco creata la tensione.

Hitchcock, dunque, introduce gli spettatori direttamente nel film. Questo concetto ricorda un discorso molto complesso e affascinante che fa il filosofo Gilles Deleuze in uno dei due libri che scrive sul cinema, L’immagine-movimento. Secondo Deleuze nei film di Hitchcock ciò che conta non è l’azione compiuta (omicidio o furto). Non si tratta neanche di trovare un colpevole, ciò che farebbe delle sue pellicole dei whodunit (film in cui si è spinti ad indagare su qualcosa che il regista ci tiene nascosto; la parola è una contrazione dell’inglese who has done it?). Quello che è importante è la relazione in cui sono invischiati l’azione ed il suo autore. Cerchiamo di spiegarci. In Dial M for Murder (Il delitto perfetto, USA 1954) un uomo decide di sbarazzarsi della moglie per riscuoterne l’eredità. Se il film fosse girato da un qualsiasi altro regista il nostro uomo, Tony Wendice, escogiterebbe un piano e farebbe fuori personalmente la ricca signora. Nel film di Hitchcock invece viene assoldata una terza persona. Questo nuovo personaggio non è un killer di professione, viene ricattato ed è praticamente costretto ad uccidere. Il delitto viene quindi scambiato o donato. Ciò che diventa essenziale, ciò che tiene lo spettatore incollato allo schermo, è la relazione tra Tony Wendice e il suo esecutore.

Facciamo un altro esempio. Un uomo siede su una sedia a rotelle e sbircia fuori dalla finestra. La telecamera ci mostra la gamba ingessata, poi una macchina fotografica rotta, poi delle foto di un incidente in un autodromo. Ecco stabilita una relazione. L’uomo è un fotografo e s’è rotto la gamba durante una gara automobilistica, probabilmente è stato coinvolto nell’incidente. L’esempio è tratto da Rear Window (La finestra sul cortile, USA 1954) e ci mostra come una relazione possa instaurarsi anche tra un personaggio e la sua condizione.

A questo punto della trattazione abbiamo stabilito diverse cose. Hitchcock crea immagini suggestive, è il maestro della suspence e introduce i suoi spettatori direttamente nel film. Vorremmo chiudere con una citazione tratta dal Cinema secondo Hitchcock, perchè ci sembra pertinente e suggestiva.

“Se siamo disposti ad accettare, nell’epoca di un Ingmar Bergman, l’idea che il cinema non sia inferiore alla letteratura, credo che sia necessario classificare Hitchcock – ma tutto sommato perchè classificarlo? -nella categoria degli artisti inquieti come Kafka, Dostoevskij, Poe.

Questi artisti dell’angoscia non possono evidentemente aiutarci a vivere, perchè vivere per loro è già difficile, ma la loro missione è di dividere con noi le loro ossessioni. Con questo, anche ed eventualmente senza volerlo, ci aiutano a conoscerci meglio, il che costituisce un obiettivo fondamentale di ogni opera d’arte.”

Domenico Rubino

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